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Sergio Monaldini

Teatro dell’arte, Commedia dell’arte, Opera in musica

«Musicalia. Annuario di studi musicologici», 8-9, 2011-2012

Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 2019, 2 voll., 120 + 192 pp., euro 320
ISBN 978-88-3315-023-9

Lo studio del complesso rapporto di contiguità e contaminazione tra i consolidati circuiti del teatro dell’Arte e il nascente sistema produttivo dello spettacolo musicale nei primi decenni del XVII secolo vanta una tradizione di lungo corso. Si pensi al pioneristico saggio di Nino Pirrotta Commedia dell’arte e melodramma (edito una prima volta nel 1954 sulla rivista «Santa Cecilia» e riproposto nel 1955 e 1987), che su questo tema ha fissato una sorta di «canone» (p. 19). Un terreno scivoloso, più volte perlustrato dallo stesso Sergio Monaldini, le cui fruttuose ricerche d’archivio sono state da tempo pubblicate in molteplici sedi scientifiche e confluite nell’importante edizione critica dei documenti della famiglia Bentivoglio e sul suo patrocinio nei confronti di musici, attori e artisti negli anni centrali del Seicento (L’orto dell’Esperidi […], Lucca, Lim, 2000).

Proprio da Pirrotta Monaldini riparte per sanare alcuni equivoci che quel saggio ha ingenerato nella storiografia successiva e che interessano il fenomeno della cosiddetta “Commedia dell’Arte” nel suo complesso, a partire dalla sua stessa definizione. Per disambiguare una locuzione tanto fortunata quanto discussa (da Vincenzo De Amicis a Benedetto Croce, da Ludovico Zorzi a Cesare Molinari, da Ferdinando Taviani a Roberto Tessari), lo studioso introduce la distinzione tra “Commedia dell’Arte” «genere teatrale contraddistinto dall’uso di maschere, improvvisazione ecc.» e “Teatro dell’Arte” inteso come «attività delle grandi compagnie comiche che diedero vita e organizzarono il mercato teatrale» (p. 57). Imprescindibile punto di riferimento bibliografico i lavori di Siro Ferrone, tra i quali si annovera quella Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVIII secolo) (Torino, Einaudi, 2014) che può essere a buon diritto ritenuta la «migliore e più aggiornata opera di sintesi sull’argomento» (p. 39).

In un primo capitolo speculativo, Monaldini smonta pezzo per pezzo le tesi «fragili o parziali» (p. 20) in cui Pirrotta sostiene un’osmosi generica e a tratti superficiale fra teatro di parola e teatro in musica. Viceversa, una messa in valore delle differenze tra i due ambiti e una loro puntuale contestualizzazione inducono a un ridimensionamento del fenomeno nella prospettiva di una più obiettiva storicizzazione. Così, se da un lato si relativizza l’importanza della pratica di cantanti di professione nel teatro comico e si evidenziano i tratti distintivi delle nuove compagnie girovaghe di musici rispetto alle formazioni dell’Arte, dall’altro si pone l’accento su un tema trascurato come quello dell’allestimento di opere in musica da parte di troupes comiche. Si pensi alla Finta pazza di Francesco Sacrati messa in scena a Parigi dalla compagnia di Tiberio Fiorillo detto Scaramuccia e di Carlo Cantù detto Buffetto (1645): testimonianza emblematica, una fra le tante, della concorrenza «tra musici e comici per attribuirsi la titolarità del nuovo genere» (p. 67).

Seguono due esempi paradigmatici del rapporto di continuità tra il melodramma e l’operato delle compagnie comiche professionistiche nei primi decenni del Seicento. Il primo esempio, illustrato nel secondo capitolo, riguarda l’attività di Carlo Righenzi in arte Leandro, uno dei pochi professionisti, se non l’unico, a poter essere definito a pieno titolo musico e comico. Personalità eclettica – librettista, impresario, maestro di canto – Righenzi dapprima fu attivo come “virtuoso”, militando tra gli anni Cinquanta e Sessanta nella scuderia del cardinale Giovan Carlo de’ Medici; poi entrò a far parte della compagnia di Giovan Battista Fiorillo e del fratello Tiberio, dove si distinse per la spiccata verve comica. La sua vicenda, indagata su più fronti anche sulla base dei lavori archivistici di Sara Mamone (in particolare Serenissimi fratelli principi impresari […], Firenze, Le Lettere, 2003), si presta come «argomento a contrario nei confronti della tendenza a mescolare troppo sbrigativamente due ambiti professionali che in effetti si mantennero sempre distinti» (p. 15).

All’aristocratico bolognese Cornelio Malvasia – politico, militare, astronomo – è dedicato il terzo e ultimo capitolo. Esempio di impegno costante nell’organizzazione e nel finanziamento di spettacoli cittadini sia comici sia musicali, la storia di Malvasia si intreccia con quella della circolazione delle prime compagnie febiarmoniche e con la nascita dei teatri specializzati negli allestimenti operistici. La ricostruzione della sua attività di protettore di artisti e di mediatore per alcune delle principali corti dell’Italia centro-settentrionale, in particolare Modena, Mantova e Firenze, contribuisce a delineare quella complessa rete di relazioni sottesa all’organizzazione dello spettacolo di Antico regime, condizionandone l’orientamento, preordinando gli spostamenti delle compagnie e determinando le condizioni contrattuali dei professionisti ingaggiati.

In quest’ultima parte Monaldini consegna pagine importanti: come quelle in cui si ricostruiscono circostanze e svolgimento dei Furori di Venere, celebre torneo rappresentativo dato a Bologna nel 1639 sotto la direzione di Malvasia; oppure quelle dedicate a un altro torneo patrocinato dal gentiluomo felsineo, il poco studiato Amor vendicato, allestito il 26 marzo 1653 dall’accademia degli Infiammati presso un teatro Malvezzi rinnovato per l’occasione. Esempi, questi, di imponente ricchezza documentale (in parte inedita) e raffinata vis interpretativa che si fondono in un volume di sicuro interesse per lo storico dello spettacolo e per lo studioso tout court.



di Gianluca Stefani


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