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Lorenzo Mango

Il Novecento del teatro. Una storia


Roma, Carocci, 2019, 369 pp., euro 32,00
ISBN 9788843094196

La ricostruzione meticolosa e articolata del volume di Lorenzo Mango, Il Novecento del teatro. Una storia, intende «tracciare la complessità, con le differenze e gli intrecci che ne definiscono un’identità articolata che si fonda sulla premessa, speriamo dimostrata, della centralità dei nuovi modi di fare, ma ancor prima di pensare il teatro» (p. 14). L’allineamento dei materiali procede secondo il metodo dell’accorpamento tematico – drammaturgia, regia, attore, Nuovo Teatro – affrontato in modo cronologico. Allo sviluppo delle fasi storiche corrisponde la collocazione geografica delle esperienze. Questa assegna all’Europa una posizione centrale non trascurando i fenomeni di migrazioni culturali da e verso gli Stati Uniti d’America.

Mango considera il debutto di Ubu re di Alfred Jarry (1896) un episodio simbolico. E individua un valore propulsivo per la scrittura teatrale a partire dalla crisi del dramma borghese. Da un lato le drammaturgie di Strindberg, Čechov, Ibsen; dall’altro la nascita della regia moderna: Appia, Craig, Stanislavskij, Reinhardt, Copeau, Mejerchol’d. Analogo criterio è assunto per inquadrare le variegate poetiche di rottura e di innovazione dei linguaggi teatrali con cui le avanguardie storiche infiammano la scena di inizio secolo. Con ricadute, per adesione o per rifiuto, nella drammaturgia di Pirandello, Brecht, Hofmannsthal, Schnitzler. A questi Mango dedica pagine di esemplare chiarezza. Parimenti quando affronta la riforma dell’attore chiamato a confrontarsi con nuovi metodi di recitazione.

La Seconda guerra mondiale è uno spartiacque storico: «la seconda parte del Novecento può essere letta come un ricominciare: ripartire daccapo per un verso, per un altro verso ritessere le fila con i decenni esplosivi di inizio secolo» (p. 171), attraverso il rilancio della regia e l’uso di un linguaggio teatrale capace di esprimere malessere e denuncia (Genet, Beckett, Osborne). Questa la strada che conduce al cosiddetto Nuovo Teatro degli anni Sessanta, che si interroga «sull’identità del linguaggio teatrale», p. 200) svincolato dalle forme del teatro canonico e ufficiale (Living Theatre, Grotowski, Carmelo Bene, Odin Teatret, ecc.).

Quando finisce il Novecento? Nel corso del secolo si sono rifondati i codici linguistici e la sintassi della scena; si sono dilatati i confini dell’attore e dello spazio scenico. Oggi – osserva acutamente Mango – quel corpo linguistico «è diventato una lingua che il teatro della “fine del Novecento” può parlare nelle maniere più diverse, peculiari e “nuove”». (p. 308) Una serie di esempi – Robert Wilson, Federico Tiezzi, Toni Servillo, Mario Martone, Robert Lepage, Eimuntas Nekrošius – conclude questo libro coinvolgente come un romanzo. Le informazioni e la ricca e aggiornata bibliografia sviluppano riflessioni importanti dal punto di vista storiografico.



di Massimo Bertoldi


La copertina

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