La monografia intende ampliare e
approfondire gli studi sul drammaturgo (più recentemente anche narratore)
ivoriano, autore duna trentina di pièces,
tradotte e rappresentate dal 1990. La pubblicazione, curata da una specialista
in drammaturgie africane contemporanee, valuta il lavoro di Koffi Kwahulé attraverso ricerche
mirate sui testi e sfruttando unIntervista,
a cura della sua traduttrice statunitense, che apporta informazioni biografiche
inedite, come inedito è latto unico qui registrato, Madeleine. Oltre il riconoscimento duna originalità artistica, il
volume si propone quale guida allopera complessa dun autore tuttora inconsueto
nel repertorio corrente, se pure centrale nel panorama internazionale per la
sua presenza inconfondibile nei «nouveaux horizons sur les écritures
contempraines afro-diasporiques» (p. 15).
Nato nel 1956 in Costa dAvorio,
immigrato a Parigi per gli studi alla fine degli anni Settanta, Kwahulé offre un
esempio autorevole di personalità africana fedele alle origini e impegnata a
riconoscere la cultura dellaccoglienza. La sua arte è stata notata a partire dallapparizione
di due pièces ispirate allAmerica, Il nous faut lAmérique! (1990) e Cette vieille magie noire (1991). «Extraordinaire pas de côté dun
africain qui élance son imaginaire vers lAmérique et se sent habité dune
conscience diasporique qui ne cessera de résonner dans son théâtre comme dans
ses romans» (p. 8). Lo accompagnano i motivi della “perdita” e
della “traversata”; traversata senza ritorno, causa duna sensazione di
alterità insolubile. «Limmigration
se profile dans lœuvre comme une expérience inarticulable […]. Le théâtre
permet de mettre des sons et des images sur ce déplacement intérieur que vivent
les émigrés» (pp. 10 e 12).
Divisi in due categorie, i saggi qui
raccolti studiano i testi nelle strutture, i temi e i processi peculiari
rapportati alla scena e alla narrativa contemporanee; appunto nella
consapevolezza crescente, almeno in Francia, del significato assunto dagli
artisti appartenenti alla diaspora di discendenza africana. Movente primario della
scrittura, dichiarato da Kwahulé, è lossessiva urgenza di rispondere alla
domanda biblica “Qua-tu fait de ton frère?”, assumendo responsabilità nel rapporto
di comprensione e scambio con le diversità incontrate. Lo stesso autore conferma
unevoluzione lungo due periodi creativi, dalla denuncia delle colpe del regime
coloniale in Africa allelaborazione di nuove forme drammatiche sempre più
ardue atte a contrastare sia le forme note, sia le idee vigenti nella società
che le accoglie: «Dans mes premiers textes jessayais décrire lhistoire de
manière quelque peu littérale. […] Aujourdhui
jécris de moins en moins des histoires […] et [ce sont] les moyens que je suis
obligé dinventer pour trascender chaque impossibilité et atteindre la musique
qui palpite en moi, que je trouve jubilatorie dans lécriture» (p. 39).
Secondo Edvige Gbouablé: «Cest
pourquoi lunivers théâtral de Koffi Kwahulé est fait dabsence, dhybridité,
dinstabilité […] le dramaturge ivoirien sest affranchi des formes trop
conventionnelles pour se lancer le défi dinventer de nouvelles structures
susceptibles dopérer une recomposition des forces sociales» (p. 164). Un
percorso che abbandona dunque unideologia “progressista” per unestetica della
“truculenza”, del marronnage (abusività consapevole) applicati alla
concezione scenica, prima che alla valenza politica della propria azione
espressiva. Per la curatrice, «la
scène devient le moyen dinventer la langue pour dire cette expérience de
lémigrant / immigré qui ne trouve pas dexpression dans la langue daccueil et
ne trouve plus non plus de forme dans celle des origines» (p. 12). Lo scrittore
afferma: «Moi, je suis addossé à lAfrique, mais en même temps il me faut
construire ici quelque chose dinouï. Il sagit de créer un autre espace
culturel et spirituel dans lespace doù lon vient. […] Un lieu inédit»
(p. 12). Per scelta funzionale, col ricorso alla modalità jazzistica – fra i suoi
modelli è la celebre jam session di Round about midnight – ottiene di «créer
du secret sur un thème archiconnu» (p. 40).
Applicate a raggruppamenti significativi
di testi o a singole opere, si sviluppano nel libro le ipotesi originali delle Lectures critiques. Virginie Soubrier indaga sul senso della negritude e reperisce i momenti della
creazione della forma iniziale (negli inediti darchivio, Le Grand-Serpent, 1977, e 1+1
= 1, 1982) ispirata dal jazz: «Les pièces de cette période témoignent du
fait que les relations à lAutre (au Noir ou au Blanc) relèvent de mécanismes
symétriques ou complémentaires, de rejet ou de repli» (p. 21) e vedono nascere «chez
le spectateur le désir dêtre-avec-lAutre » (p. 31), in particolare in Jaz (1999) così musicalmente articolata.
Progredisce la concezione musicale che esprimeva Le Roi Jones nel 1969 e, assieme, lidea utopica di unEuropa
orientata a «déclosion, ouverture vers autre
chose. Cet autre chose, ce possible à lœuvre dans les drames de
lauteur afro-européen, cest lidée dune certaine Europe, ouverte, poreuse»
(p. 32). Le «masques poétiques» di Kwahulé rivelano, nellarticolo di Dominique Traoré, il loro potere
rituale e incantatorio. Une esthétique de
lintermédialité et du dédoublement, nel contributo di Christophe Konkobo, comporta tante influenze mediatiche sulla
scrittura, in particolare dei tre romanzi, nelle trame dei quali si incontrano le
funzioni complementari – sui personaggi e sullo sviluppo della fable – di televisione e cinema, della
posta elettronica e dei videogiochi. I testi sono appunto Baby face (2006), Monsieur Ki
(2010) e Nouvel an chinois (2015),
che posti a confronto con le pièces
più affini generano significative contestualità a partire dal gesto dellautore
che si propone come personaggio (p. 75).
Interessante la componente della danza,
usata come mezzo di suspence, poiché
usata non come coreografia in azione, ma come allusione alla sua tensione,
sempre dilazionata e irrisolta. Altri motivi si rincorrono nei saggi. La truculence come eccesso, esuberanza,
nella ricerca della vibrazione poetica legata alla blue note, capace di toccare lineffabile musicale (Agate Bel-Franian, pp. 149-150). Edwige Gbouablé
individua i «quatre point cardinaux du théâtre kwahuléen», in dynamisme esthétique, écriture de laltérité, violence e théâtre politique: questultimo non quale veicolo di ideologie, ma
efficace nel «proposer des formes attestant la maturité du genre dramatique
africain» (p. 165).
Alcuni artisti che hanno
incontrato lautore forniscono testimonianze (in Regards croisés) sulle sue peculiarità per loro più attraenti e
feconde. Lattrice Dominique Paquet,
in Rire, cest déjà de la musique,
usa testi e dati biografici per farci apprezzare la fantasia dellautore,
insofferente verso la denuncia veristica della violenza e teso a suscitare un
turbamento catartico ed emozioni prossime alla transe. Nellintimità sensibile della lingua madre di Kwahulé, il baoulé, misura lazione dellinconscio.
«Je ne comprends pas tout ce que jécris» (p. 176), confessa lo scrittore, che
ammette davere indotto in qualche spettatore un riso provocatorio e
sconvolgente, fino allo svenimento. «Il soulève les musiques infernales des ténèbres humaines et il rit. Un
rire métaphysique» (p. 177).
Il regista Sébastien Bournac rievoca le impressioni suscitate dal suo allestimento
di La mélancolie des barbares al Théâtre
National de Toulouse nel 2012, al momento di scoprire come si fondano, nella pièce, ragioni personali con istanze
della comunità civile. Ciò avviene per lintrusione nella drammaturgia di un
particolare «plaisir de la cruauté… à linstar dun Tarantino» (p. 182). Big Shoot e Jaz sono le due prove impegnative di regia del 2016, che inducono Alexandre Zeff a un omaggio in versi, pieno
delle suggestioni via via ricevute e sfruttate nelle messe in scena. Notevoli i
rilievi sulle analogie raccolte, quali la metafora della boxe («uppercut
poétique / le KO émotionnel», p. 188), e sui generi espressivi influenzati a
vari livelli da una sessualità raramente così esplicitata nei comportamenti,
fino allincidenza degli elementi visivi e musicali. Kristian Frédric riferisce del proprio modo dapproccio alle stesse
pièces, allestite a Montréal. Sollecitato
anchegli dalla situazione del match,
precisa: «Ce nest pas le KO que cette artiste recherche, mais la vigilance»
(p. 213).
Nel paragone con Bernard-Marie Koltès (Combat de nègre et de chien e Dans la solitude des champs de coton) allude
allo scontro fra i due protagonisti di Big
Shoot quasi ripetesse il duello fratricida biblico e lo avverte ancora nel
conflitto fra le due sorelle di LOdeur
des arbres. Isabelle Pousseur redige
un vero Journal de travail che
accompagna la messa in scena di LOdeur
des arbres a Ouagadougou (Burkina Faso, 2014) poi ripresa a Bruxelles. Inedito
è il preannunciato atto unico Madeleine,
“variazione” sul precedente Ave Maria
(2008). I quattro “movimenti” (Nativité, Messe basse, Rosaire, Confessions) sono
intitolati a momenti liturgici cattolici, qui applicati a una storia passionale
che dal crudo realismo vira verso il simbolismo intenso duna tremenda eppure compatibile
vicenda umana.
Realizzata per questa
pubblicazione, la lunga intervista di Judith
Miller illumina i legami più profondi del drammaturgo con le sue origini,
mentre rinnova limpegno per la bellezza e il confronto con lalterità: «Ce qui
fonde véritablement notre statut dhumain, cest notre élan à garder les autres,
à témoigner deux. Voilà, cest ce que je tente de faire, le théâtre
comme testament» (p. 257).
di Gianni Poli
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