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Koffi Kwahulé

A cura di Sylvie Chalaye
Écrivains francophones d’aujourd’hui

Paris, Garnier, 2019, 323 pp., euro 39,00
ISBN 978-2-408-07724-4

La monografia intende ampliare e approfondire gli studi sul drammaturgo (più recentemente anche narratore) ivoriano, autore d’una trentina di pièces, tradotte e rappresentate dal 1990. La pubblicazione, curata da una specialista in drammaturgie africane contemporanee, valuta il lavoro di Koffi Kwahulé attraverso ricerche mirate sui testi e sfruttando un’Intervista, a cura della sua traduttrice statunitense, che apporta informazioni biografiche inedite, come inedito è l’atto unico qui registrato, Madeleine. Oltre il riconoscimento d’una originalità artistica, il volume si propone quale guida all’opera complessa d’un autore tutt’ora inconsueto nel repertorio corrente, se pure centrale nel panorama internazionale per la sua presenza inconfondibile nei «nouveaux horizons sur les écritures contempraines afro-diasporiques» (p. 15).

Nato nel 1956 in Costa d’Avorio, immigrato a Parigi per gli studi alla fine degli anni Settanta, Kwahulé offre un esempio autorevole di personalità africana fedele alle origini e impegnata a riconoscere la cultura dell’accoglienza. La sua arte è stata notata a partire dall’apparizione di due pièces ispirate all’America, Il nous faut l’Amérique! (1990) e Cette vieille magie noire (1991). «Extraordinaire pas de côté d’un africain qui élance son imaginaire vers l’Amérique et se sent habité d’une conscience diasporique qui ne cessera de résonner dans son théâtre comme dans ses romans» (p. 8). Lo accompagnano i motivi della “perdita” e della “traversata”; traversata senza ritorno, causa d’una sensazione di alterità insolubile. «L’immigration se profile dans l’œuvre comme une expérience inarticulable […]. Le théâtre permet de mettre des sons et des images sur ce déplacement intérieur que vivent les émigrés» (pp. 10 e 12).

Divisi in due categorie, i saggi qui raccolti studiano i testi nelle strutture, i temi e i processi peculiari rapportati alla scena e alla narrativa contemporanee; appunto nella consapevolezza crescente, almeno in Francia, del significato assunto dagli artisti appartenenti alla diaspora di discendenza africana. Movente primario della scrittura, dichiarato da Kwahulé, è l’ossessiva urgenza di rispondere alla domanda biblica “Qu’a-tu fait de ton frère?”, assumendo responsabilità nel rapporto di comprensione e scambio con le diversità incontrate. Lo stesso autore conferma un’evoluzione lungo due periodi creativi, dalla denuncia delle colpe del regime coloniale in Africa all’elaborazione di nuove forme drammatiche sempre più ardue atte a contrastare sia le forme note, sia le idee vigenti nella società che le accoglie: «Dans mes premiers textes j’essayais d’écrire l’histoire de manière quelque peu littérale. […] Aujourd’hui j’écris de moins en moins des histoires […] et [ce sont] les moyens que je suis obligé d’inventer pour trascender chaque impossibilité et atteindre la musique qui palpite en moi, que je trouve jubilatorie dans l’écriture» (p. 39).

Secondo Edvige Gbouablé: «C’est pourquoi l’univers théâtral de Koffi Kwahulé est fait d’absence, d’hybridité, d’instabilité […] le dramaturge ivoirien s’est affranchi des formes trop conventionnelles pour se lancer le défi d’inventer de nouvelles structures susceptibles d’opérer une recomposition des forces sociales» (p. 164). Un percorso che abbandona dunque un’ideologia “progressista” per un’estetica della “truculenza”, del marronnage (abusività consapevole) applicati alla concezione scenica, prima che alla valenza politica della propria azione espressiva. Per la curatrice, «la scène devient le moyen d’inventer la langue pour dire cette expérience de l’émigrant / immigré qui ne trouve pas d’expression dans la langue d’accueil et ne trouve plus non plus de forme dans celle des origines» (p. 12). Lo scrittore afferma: «Moi, je suis addossé à l’Afrique, mais en même temps il me faut construire ici quelque chose d’inouï. Il s’agit de créer un autre espace culturel et spirituel dans l’espace d’où l’on vient. […] Un lieu inédit» (p. 12). Per scelta funzionale, col ricorso alla modalità jazzistica – fra i suoi modelli è la celebre jam session di Round about midnight – ottiene di «créer du secret sur un thème archiconnu» (p. 40).

Applicate a raggruppamenti significativi di testi o a singole opere, si sviluppano nel libro le ipotesi originali delle Lectures critiques. Virginie Soubrier indaga sul senso della negritude e reperisce i momenti della creazione della forma iniziale (negli inediti d’archivio, Le Grand-Serpent, 1977, e 1+1 = 1, 1982) ispirata dal jazz: «Les pièces de cette période témoignent du fait que les relations à l’Autre (au Noir ou au Blanc) relèvent de mécanismes symétriques ou complémentaires, de rejet ou de repli» (p. 21) e vedono nascere «chez le spectateur le désir d’être-avec-l’Autre » (p. 31), in particolare in Jaz (1999) così musicalmente articolata. Progredisce la concezione musicale che esprimeva Le Roi Jones nel 1969 e, assieme, l’idea utopica di un’Europa orientata a «déclosion, ouverture vers autre chose. Cet autre chose, ce possible à l’œuvre dans les drames de l’auteur afro-européen, c’est l’idée d’une certaine Europe, ouverte, poreuse» (p. 32). Le «masques poétiques» di Kwahulé rivelano, nell’articolo di Dominique Traoré, il loro potere rituale e incantatorio. Une esthétique de l’intermédialité et du dédoublement, nel contributo di Christophe Konkobo, comporta tante influenze mediatiche sulla scrittura, in particolare dei tre romanzi, nelle trame dei quali si incontrano le funzioni complementari – sui personaggi e sullo sviluppo della fable – di televisione e cinema, della posta elettronica e dei videogiochi. I testi sono appunto Baby face (2006), Monsieur Ki (2010) e Nouvel an chinois (2015), che posti a confronto con le pièces più affini generano significative contestualità a partire dal gesto dell’autore che si propone come personaggio (p. 75).   

Interessante la componente della danza, usata come mezzo di suspence, poiché usata non come coreografia in azione, ma come allusione alla sua tensione, sempre dilazionata e irrisolta. Altri motivi si rincorrono nei saggi. La truculence come eccesso, esuberanza, nella ricerca della vibrazione poetica legata alla blue note, capace di toccare l’ineffabile musicale (Agate Bel-Franian, pp. 149-150). Edwige Gbouablé individua i «quatre point cardinaux du théâtre kwahuléen», in dynamisme esthétique, écriture de l’altérité, violence e théâtre politique: quest’ultimo non quale veicolo di ideologie, ma efficace nel «proposer des formes attestant la maturité du genre dramatique africain» (p. 165).

Alcuni artisti che hanno incontrato l’autore forniscono testimonianze (in Regards croisés) sulle sue peculiarità per loro più attraenti e feconde. L’attrice Dominique Paquet, in Rire, c’est déjà de la musique, usa testi e dati biografici per farci apprezzare la fantasia dell’autore, insofferente verso la denuncia veristica della violenza e teso a suscitare un turbamento catartico ed emozioni prossime alla transe. Nell’intimità sensibile della lingua madre di Kwahulé, il baoulé, misura l’azione dell’inconscio. «Je ne comprends pas tout ce que j’écris» (p. 176), confessa lo scrittore, che ammette d’avere indotto in qualche spettatore un riso provocatorio e sconvolgente, fino allo svenimento. «Il soulève les musiques infernales des ténèbres humaines et il rit. Un rire métaphysique» (p. 177).

Il regista Sébastien Bournac rievoca le impressioni suscitate dal suo allestimento di La mélancolie des barbares al Théâtre National de Toulouse nel 2012, al momento di scoprire come si fondano, nella pièce, ragioni personali con istanze della comunità civile. Ciò avviene per l’intrusione nella drammaturgia di un particolare «plaisir de la cruauté… à l’instar d’un Tarantino» (p. 182). Big Shoot e Jaz sono le due prove impegnative di regia del 2016, che inducono Alexandre Zeff a un omaggio in versi, pieno delle suggestioni via via ricevute e sfruttate nelle messe in scena. Notevoli i rilievi sulle analogie raccolte, quali la metafora della boxe («uppercut poétique / le KO émotionnel», p. 188), e sui generi espressivi influenzati a vari livelli da una sessualità raramente così esplicitata nei comportamenti, fino all’incidenza degli elementi visivi e musicali. Kristian Frédric riferisce del proprio modo d’approccio alle stesse pièces, allestite a Montréal. Sollecitato anch’egli dalla situazione del match, precisa: «Ce n’est pas le KO que cette artiste recherche, mais la vigilance» (p. 213).

Nel paragone con Bernard-Marie Koltès (Combat de nègre et de chien e Dans la solitude des champs de coton) allude allo scontro fra i due protagonisti di Big Shoot quasi ripetesse il duello fratricida biblico e lo avverte ancora nel conflitto fra le due sorelle di L’Odeur des arbres. Isabelle Pousseur redige un vero Journal de travail che accompagna la messa in scena di L’Odeur des arbres a Ouagadougou (Burkina Faso, 2014) poi ripresa a Bruxelles. Inedito è il preannunciato atto unico Madeleine, “variazione” sul precedente Ave Maria (2008). I quattro “movimenti” (Nativité, Messe basse, Rosaire, Confessions) sono intitolati a momenti liturgici cattolici, qui applicati a una storia passionale che dal crudo realismo vira verso il simbolismo intenso d’una tremenda eppure compatibile vicenda umana.

Realizzata per questa pubblicazione, la lunga intervista di Judith Miller illumina i legami più profondi del drammaturgo con le sue origini, mentre rinnova l’impegno per la bellezza e il confronto con l’alterità: «Ce qui fonde véritablement notre statut d’humain, c’est notre élan à garder les autres, à témoigner d’eux. Voilà, c’est ce que je tente de faire, le théâtre comme testament» (p. 257).


di Gianni Poli


La copertina

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