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Alla Munchenbach

Tino Schirinzi. Un mestiere costruito sull’acqua. Biografia, interpretazioni, testimonianze


Taranto, Edit@ Casa Editrice & Libraria, 2017, 200 pp., euro 18,00
ISBN 978-8899545567

Pubblichiamo di seguito la “Presentazione” al volume di Francesca Simoncini e la “Testimonianza” di Claudio Magris.



Studiare gli attori è difficile. Arduo ricostruire la qualità e l’eredità artistica della loro attività, riappropriarsi di un loro esclusivo “punto di vista”, evidenziare la qualità e lo stile del loro linguaggio scenico. Anche quando fortemente connotato quest’ultimo infatti si inserisce, e quindi anche un poco si disperde, in contesti produttivi e operativi di natura collettiva e commerciale che ne travalicano, spesso ne nascondono, l’originale sostanza. Arte plurale per eccellenza quella del teatro implica l’esercizio di una condivisione di mestieri, di conoscenze, di creatività che si sommano, si confondono, prevaricano l’una sull’altra, occultano la genesi e la paternità individuale della creazione artistica. Tra tutte le arti che concorrono alla realizzazione di uno spettacolo quella dell’attore è stata considerata nel tempo la più debole, la più condizionabile, la meno decifrabile, la più effimera e, anche per questo, ha finito con l’essere la meno celebrata e la meno studiata dalla cosiddetta cultura ufficiale e accademica. Schiacciata dalla volontà di affermazione, talvolta arrogante e prepotente, di autorialità altre – quella dei drammaturghi prima, dei registi poi – è apparsa l’anello più fragile e transitorio delle realtà spettacolari che hanno attraversato i secoli. Di queste, invece, ha sempre determinato, non solo la vitalità e la sostanza ma, ancora di più, la semplice esistenza.

 

Elemento fondante di ogni spettacolo dal “vivo” l’attore è in effetti il vero depositario di un “sapere” e di “un “mestiere” che, nei tempi lunghi della storia, ha saputo rigenerarsi pur conservando forti legami col passato e continuando a trasmettere e ad alimentare tradizioni e culture. L’attore però, calato il sipario, spesso non lascia traccia di sé, delle sue visioni, delle sue performances e, anche quando queste ultime sono documentate più di altre riluttano ad essere fissate su carta. Diventa allora difficile ricomporle o, anche più semplicemente e umilmente, descriverle. Lo studioso che si pone questo compito è dunque costretto a procedere attraverso pericolose e scivolose approssimazioni. «Un mestiere costruito sull’acqua» recita, non a caso, il titolo di questo libro che è stato opportunamente scelto dall’autrice scavando tre le dichiarazioni dell’attore Tino Schirinzi.



Rosmersholm, Teatro Regionale Toscano-Centro Teatrale Bresciano, 1979-80, regia di Massimo Castri
© Tito Alabiso (Archivio CTB Centro Teatrale Bresciano)

 

Consapevoli, l’uno dell’essenza vischiosa di un’arte fluida, inafferrabile, priva di confini, trasparente, l’altra della conseguente difficoltà di raccontarla. Eppure questo racconto alla fine è nato ed è ora pubblicato. Affonda le sue radici e la sua composizione nella stesura di una tesi di laurea di primo livello affrontata con particolare passione, intelligenza e serietà dalla candidata. Doti essenziali e del tutto personali alle quali l’Università di Firenze e il Corso di Laurea in Progettazione e Gestione di Eventi e Imprese dell’Arte e dello Spettacolo hanno saputo fornire un rodato metodo di lavoro. Da molti anni è infatti attivo a Firenze un laboratorio sullo studio degli attori che ha dato vita a un database relazionale, l’Archivio Multimediale degli Attori Italiani (AMAtI), consultabile on-line (http://amati.fupress.net). Il progetto è nato dalla volontà di ricostruire, con metodo scientifico e moderni mezzi di comunicazione, la storia degli attori italiani dal Cinquecento fino ai nostri giorni e di dare corretta collocazione a biografie di artisti del teatro che, vissuti nel contesto sociale, artistico, organizzativo del proprio tempo, hanno contribuito alla creazione e all’evoluzione della pratica scenica italiana considerata nella sua dimensione operativa e storica. Uno dei presupposti imprescindibili per l’attendibilità e la ricostruzione di queste biografie è il ricorso ai documenti, siano essi di natura cartacea (testimonianze, copioni, memorie, contratti, lettere, ecc.), iconografica o audiovisiva.

 

Di questo insegnamento fa tesoro il libro di Alla Munchenbach che attenua il rischio insito nella labilità dello studio dell’arte dell’attore bilanciandola con argomentazioni fondate sul reperimento e sulla consultazione di una ricca selezione critica di fonti primarie, oggi depositate in vari e prestigiosi istituti di conservazione. A queste l’autrice aggiunge un buon numero di preziose testimonianze da lei stessa, con oculatezza e pazienza, selezionate e prodotte. Quanto basta per ricostruire un profilo che non scade mai nella semplice aneddotica e che si sforza di essere il più possibile puntuale e fedele. Il resto del contenuto e della godibilità del libro lo fanno la sincera passione dell’autrice e l’indubbia qualità artistica ed esistenziale dell’attore di cui viene proposto il ritratto.

                                                           di Francesca Simoncini



Per questa testimonianza ci incontriamo la mattina del 25 febbraio 2016 al Caffè S. Marco di Trieste.

Lo Stadelmann fu la prima messa in scena di un mio testo teatrale. Tino, era perfetto per il ruolo, con questa sua capacità di essere contemporaneamente vitale, sensuale, delicato, smarrito, gaglioffo, ubriacone… e difatti si era innamorato del personaggio sin da subito. Quando andai a trovarlo a casa sua per parlagli, circa un anno prima del debutto, mi resi conto che lui aveva capito il testo perfino meglio di me e aveva colto a pieno il senso dell’insufficienza di vivere del personaggio. Pensi che, per questo ruolo, erano stati presi in considerazione, da parte del teatro, attori tra i più disparati, da Gabriele Lavia a Enrico Montesano… poi, non mi ricordo come, pensammo a Schirinzi, forse fu Egisto Marcucci stesso a suggerirlo.

Ai quei tempi non avevo agenti, portai personalmente il testo qui al Rossetti di Trieste per essere valutato. Avevo già lavorato per il teatro come traduttore. Ad esempio avevo tradotto Ibsen per Mario GuazzelliIl Nemico del Popolo; avevo lavorato per Beppe Fenoglio come traduttore e come co-regista nella messa in scena di alcune opere ibseniane. Esperienza che aveva costituito un mio primo approccio alla regia e al testo teatrale. Seguivo il teatro e andavo a vedere gli spettacoli. Fin da studente a Torino, lo avevo seguito in modo affascinato, dai tempi del primo Strehler con cui per altro ho avuto un ottimo rapporto, essendo anche concittadini. In affetti quando pubblicai Stadelmann nell’88, si era proposto per curarne la regia, ma poi la cosa non andò in porto in quanto lui fu lungamente impegnato a realizzare il suo Faust.

Sta di fatto che Tino, nonostante fosse all’inizio di quello che poi, come sappiamo, fu il suo calvario, e nonostante la voce stanca, aveva l’autorevolezza fisica del grande attore che portava a rendere significativo ogni suo gesto. Negli ultimi tempi la voce gli era molto peggiorata e, infatti, nella scena iniziale che è quasi mormorata, aveva il microfono. Tuttavia possedeva una varietà interpretativa che riusciva a farlo essere contemporaneamente così delicato, così trasognato, ma anche ruvido soldataccio volgare, sporco e sudato. Raro, molto raro… ho ritrovato tali capacità poco sovente nella mia vita. Posso dire che Herlitzka aveva doti e intelligenza simili a Tino, lui e pochi altri. Non è comune trovare tutta questa sostanza in un uomo! Era uno che sceglieva ciò che voleva fare, una persona di grande personalità, decisa.

Come autore e come un vero dramaturg, alla maniera tedesca, ho seguito le prove dal primo all’ultimo giorno, e ho accompagnato poi lo spettacolo anche in molte repliche di altre città. È bellissimo vedere nascere a un certo punto la struttura di una drammaturgia teatrale sotto i propri occhi. Un momento magico quello in cui da qualche cosa di informe, per quanto interessante e suggestiva, nasce lo spettacolo vero e proprio, magari ancora da perfezionare ma con già il ritmo e la struttura organica. Ricordo ancora la sensazione che ho provato quando ciò è accaduto lì al Rossetti. Pensai: ecco c’è, lo spettacolo è nato! Così come succede nello scrivere un libro, quando la confusa raccolta di appunti, dati e schemi, acquista una struttura e diventa romanzo. E devo dire che Tino, senza con questo minimamente sminuire Marcucci, sapeva essere a capo dello spettacolo, occupandosi non solo della sua parte ma intervenendo anche sulle scelte che riguardavano lo spettacolo nella sua interezza. Va inoltre detto che Schirinzi aveva l’incarico di fare il capocomico in tutto e per tutto quando Marcucci non era presente durante la tournée, altro motivo da cui si evince quanto il suo ruolo fosse fondamentale in questo spettacolo. Discutevamo sempre insieme le scelte, questo anche con la bravissima Barbara Valmorin; erano attori completi che non si limitavano a lavorare sulla loro parte ma avevano uno sguardo d’insieme, a tutto tondo. Discutevamo coralmente la realizzazione delle singole scene e non ho mai sentito nel loro intervento una prevaricazione o uno stravolgimento del mio testo. È stato un arricchimento e uno scambio reciproco, un rapporto paritetico. L’attore deve avere sempre l’ultima parola su cosa e come dire una certa frase, è lui il trait d'union tra il pubblico e il testo. Deve essere lui a dirigere, purché l’impalcatura drammaturgica sia rispettata, ovviamente.

Con l’amore non si scherza, Teatro Stabile dell’Aquila, 1970-71, regia di Aldo Biagini
© Cesidio Gualtieri (Ufficio Comunicazione Teatro Stabile d’Abruzzo)

Le critiche furono sempre entusiaste della mimesi interpretativa di Tino, ma forse, a causa di motivi organizzativi, lo spettacolo non ebbe il seguito che avrebbe potuto avere. Eppure credo che sia il regista che Tino ce la misero tutta e furono sublimi nel mettere in scena il mio racconto, ma la pièce, nel complesso, ebbe meno fortuna dei miei lavori teatrali successivi. Forse pagò lo scotto di essere il primo.

La storia dello Stadelmann è reale come accade spesso nei miei romanzi. Come diceva Svevo: «la vita è originale, più originale di quanto possa inventare non solo io, ma nemmeno Dante Alighieri!». «Truth is stranger than fiction», diceva Mark Twain. Ed è vero, se ci pensiamo nella vita di tutti noi, pubblica e privata, ci sono degli aneddoti così particolari, così belli, brutti, imbarazzanti, ridondanti che a raccontarli a volte bisogna ridurre per non rischiare di diventare addirittura kitsch e di fare una “letteraturaccia sentimentaloide”. Ne consegue che il materiale tratto dalle storie vere è un patrimonio straordinario da trattare con cura e attenzione. Stadelmann è stato realmente il servitore e segretario di Johann Wolfgang von Goethe e pare che abbia avuto un certo ruolo nel suggerire alcuni esperimenti nella cosiddetta Teoria dei Colori, tanto amata dal grande letterato tedesco. Ma di questo non vi sono documenti tangibili, solo illazioni, tuttavia per me è stato un pretesto per costruire il personaggio. Poi di sicuro sappiamo che fu licenziato perché beveva troppo, e sappiamo altresì che finì i suoi giorni in un ospizio per poveri, ormai ridotto a un rottame d’uomo ma ancora vitale e lucido. Altra cosa certa è che fu invitato a questa cerimonia nella città di Francoforte, in memoria del maestro, in quanto uno tra i pochi testimoni ancora viventi e che poi, tornato all’ospizio, in seguito a questo giorno di gloria, dopo due settimane decise di togliersi la vita e impiccarsi. La storia mi ha incuriosito e ho cercato di immaginare e ricostruire questo breve periodo, meno conosciuto, della sua vita. Invece la questione del vitalizio che gli viene offerto alla fine credo sia stata una mia invenzione, non ricordo se basata su qualche indizio reale, che in parte voleva rendere ancora più significativa la sua scelta. Un’insufficienza di essere, un malessere esistenziale, senza voler diventare patetico. Io e Tino lo abbiamo inteso come un uscire di scena perché ormai non gli andava più di vivere. Un togliersi la vita come un gesto paradossalmente vitale che non voleva fare pena. Una vitalità capace di rendere propositivo anche un gesto di rinuncia, una scelta forte e consapevole. Via! Fuori!

A me non interessava affatto fare Geothe visto dal suo servitore. Non era così che la intendevo, anche perché Stadelmann non è succube del suo padrone, anzi spesso sfrutta questo legame a suo vantaggio. D’altro canto la presenza della voce di Goethe e del suo volto stilizzato è in parte una simbolica pretesa da parte del maestro di essere il regista di tutto, di poter rompere le scatole e intervenire nella vita del servitore anche nell’ospizio. Ma Stadelmann gli resiste e non ne è né umiliato, né impressionato pur ammirandolo; riconosce la grandezza del suo padrone tuttavia ne è complice in tutto e per tutto. In definitiva si tratta di un rapporto tra pari, se pur su piani gerarchici differenti. Si tratta di un dialogo, e in un dialogo non deve esistere un ruolo più grande dell’altro. Stadelmann è libero anche di fronte a Goethe e la sua uscita di scena io l’ho intesa proprio come un gesto di affermazione della sua libertà. E Tino transustanziava questa mia idea facendola sua. Io credo che ci fosse in questa mescolanza di ruvidezza e affettuosità, in questa robustezza esistenziale, in questo piglio spirituale e fisico al contempo, in questa capacità di viver la vita veramente come un marinaio sul ponte di una nave che non si spaventa davanti alla tempesta, in questa sorta di autenticità vitale, un insieme di elementi che erano profondamente congeniali a Schirinzi e che hanno fatto sì che si interessasse al personaggio. Non credo affatto che la spinta sia stata Goethe, che potrebbe sembrare scontato, mentre lui come me, era affascinato da questo modo di essere, quella capacità tipica dei bambini che non hanno nessun problema ad essere liberi appunto nemmeno davanti al presidente degli Stati Uniti. Un piglio affettuoso verso la vita, libero. Come recita il Vangelo: «Se non sapremo diventare come i bambini non entreremo nel regno dei cieli». Un’affinità dunque quella di Schirinzi verso Stadelmann non meramente intellettuale e ideologica ma quasi di pelle, fisica, spirituale che però non gli impediva minimamente di recitare e tenere la distanza giusta e necessaria per un attore. Inoltre va detto che c’era in lui, se mi passa l’espressione, anche una componente forte, nobilmente e vitalmente meridionale, che non saprei definire meglio; un modo di vivere con scioltezza, direi.

Oltre all’attore Tino poi era un uomo gradevolissimo, colto, di compagnia. Mi ricordo delle sere indimenticabili a casa mia, non solo perché lui e Desy cantavano i loro pezzi fantastici (Maremma Amara e Cicirinella) ma anche perché poi si parlava di svariati argomenti: del senso della vita, di religione, di innamorarsi e disamorarsi, dimenticandoci perfino del nostro lavoro. Sarei megalomane a chiamare questo rapporto, durato poco più di un anno, un’amicizia, ma al tempo stesso posso dire che fu un legame intenso, vero, reale e assolutamente reciproco.

Non ho avuto modo di conoscere meglio la sua sfera privata. Ma di sicuro ho potuto toccare con mano la straordinaria unione che aveva con Desy, che era fortemente percepibile, assai profonda, assai bella e assai libera. Forse una delle unioni più intense che abbia avuto modo di conoscere nella mia vita. Una grande fortuna per loro essersi incontrati! Desy, come sa, curò le musiche dello Stadelmann ma non ricordo di averli mai sentiti discutere in scena. Sul lavoro erano molto professionali e rispettosi l’uno dell’operato dell’altro. Il loro suicidio mi ha molto sorpreso. Certamente credo che sia stato una decisione molto ponderata, non un cedimento momentaneo, bensì un gesto risoluto e forte. Ma non ho mai pensato a Schirinzi come a uno che amasse la morte, a differenza di altri personaggi per cui già dal come hanno condotto la vita si potrebbe presagire il suicidio. Perciò, al di là di quanto significhi averlo perso, che è come una mutilazione, non provo pietà per Schirinzi, poiché penso che abbia vissuto la sua vita in modo completo, intenso, nella pienezza della esistenza. Quello invece che fa tristezza e desta una profonda solidarietà è la sua malattia che lo ha tanto limitato nella sua arte e che tanta parte ha avuto certamente nella sua decisione.

Mi ricordo quella notte quando mio figlio Paolo, che è il più piccolo, dopo aver sentito la notizia in tv è entrato nella stanza mia e di mia moglie per darci la notizia del suicidio… ero stato da poco a vederlo nell’Oblomov qui a Trieste. Non potevo crederci. Quando si perdono persone care nella vita è un po’ come perdere un braccio!


di Claudio Magris


La copertina

cast indice del volume


 































































Antonio e Cleopatra, Teatro Stabile dell’Aquila 1974-1975, regia di Giancarlo Cobelli 
© Cesidio Gualtieri (Centro Studi Teatro Stabile di Torino)








































































Paganini, sceneggiato RAI, 1976, regia di Dante Guardamagna (foto di backstage)


























































































 
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