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Per Edward Gordon Craig nel cinquecentenario della morte (1966-2016)
Atti del convegno internazionale di studi (Firenze, Teatro della Pergola, 24-25 novembre 2016)

A cura di Renzo Guardenti

«Biblioteca teatrale», n.s., nn. 125-126, 2018, 334 pp., 22.00 euro
ISSN 0045-1959

Edward Gordon Craig, oggi. Note sul convegno del cinquantenario

Pubblichiamo qui l’articolo di presentazione di Renzo Guardenti 
al volume.

È quasi spontaneo, nel presentare gli atti del convegno Per Edward Gordon Craig nel cinquantenario della morte (1966-2016) – svoltosi a Firenze presso il Teatro della Pergola il 24 e 25 novembre 2016 – tornare con la memoria a un altro convegno di quasi trent’anni fa, Gordon Craig in Italia, organizzato da Gianni Isola, Lia Lapini, Gianfranco Pedullà e Alessandro Sardelli. Il convegno, tenutosi a Campi Bisenzio nel gennaio 1989, fu l’episodio conclusivo di una triade di eventi ideata da Pedullà, intitolata Per un teatro vivente: Gordon Craig in Italia, e che comprendeva anche un’esposizione e uno spettacolo.[1] Originate non in occasione di specifiche ricorrenze, queste iniziative furono senza dubbio il frutto di una tensione culturale che ancora alla fine degli anni Ottanta del XX secolo aveva come oggetto di indagine la nascita della regia teatrale europea tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, affrontata secondo la precisa coscienza metodologica della necessità di iniziare a storicizzare esperienze e fenomeni che si erano ormai lasciati alle spalle una consistente sedimentazione documentaria, ma che, al tempo stesso, seppur appartenenti a un passato che si faceva via via più lontano, continuavano a emanare una sorta di energia propulsiva capace sia di attirare il sempre più insistito interesse degli storici, sia addirittura di suscitare ampi dibattiti tra gli stessi teatranti, dando luogo talvolta a fruttuose contaminazioni tra storiografia e prassi sceniche. Anni eroici, leggendari e forieri di fecondissime contraddizioni quelli dell’avvento della regia teatrale; anni ugualmente eroici quelli del ventennio Settanta-Ottanta del secolo appena trascorso, quando gli studi sullo spettacolo stavano consolidando la propria fisionomia grazie alla messa a punto di specifiche e originali metodologie di indagine che si andavano progressivamente affinando proprio in virtù della molteplicità degli oggetti di studio.

Di questo fermento storiografico gli atti del convegno su Craig a Firenze, curati da Isola e Pedullà, possono essere considerati una tangibile testimonianza. Basta sfogliarli rapidamente e percorrere il palinsesto dei partecipanti per rendersene conto. Strutturati in due parti disposte lungo il suggestivo crinale di una serie di ritratti fotografici di Craig realizzati dal figlio David Lees, il grande fotografo della rivista inglese «Life», gli atti del convegno fiorentino affrontano la figura di Edward Gordon Craig da un lato dal punto di vista dei suoi rapporti col teatro italiano del suo tempo e dall’altro da quello della sua “idea di teatro”.

Convergono, sulla prima linea di intervento, presenze di assoluto rilievo, a cominciare da Ferruccio Marotti – che è stato tra i primi esegeti italiani e personale interlocutore di Craig già alla fine degli anni Cinquanta e a cui va il merito di aver contribuito alla diffusione degli scritti del grande regista inglese all’inizio degli anni Settanta del Novecento –, Laura Caretti, Giovanni Attolini e poi la serie dei giovani studiosi di allora ricordati in apertura, e ancora la testimonianza di Maria Signorelli – figlia di Olga Resnevič Signorelli, la celebre biografa della Duse – sulla scorta della lunga relazione epistolare intrattenuta con l’eclettico uomo di teatro.

La seconda parte del volume indaga il teatro di Edward Gordon Craig sulla base di una pluralità di sguardi che unisce, significativamente, il tempo dell’esperienza craighiana a quello della piena contemporaneità. Se gli interventi di Philippe Ivernel, Georges Banu, Monique Borie e Carolyn A. Sheehy affrontano la complessa personalità artistica del regista secondo una prospettiva di contestualizzazione storica, di esegesi teorica, di ricognizione documentaria, il contributo di Federico Tiezzi dal canto suo proietta la visione teatrale di Craig nella prassi quotidiana delle proprie scelte registiche e ne raccoglie in certa misura l’eredità, prolungandone così l’influenza anche su ciò che potremmo definire, con un’espressione cara al regista inglese, il teatro dell’avvenire.

Trent’anni fa. Sono un niente, se visti nella lunga durata della storia; ma sono altresì la misura di una distanza siderale, se pensiamo ai rivolgimenti che li hanno progressivamente interessati modificando radicalmente le tradizionali categorie della conoscenza, all’incessante evoluzione degli apporti tecnologici, alla ridefinizione canoni estetici, all’avvicendarsi di differenti pratiche artistiche e spettacolari. Trent’anni che proprio per questa fuga in avanti moltiplicano esponenzialmente la percezione della distanza temporale che ci separa dal mondo di Edward Gordon Craig. Una distanza colta nelle sue inquietanti potenzialità già da Gianni Isola e Gianfranco Pedullà nell’introduzione agli atti del convegno del 1989, quando la fuga in avanti appena menzionata era ancora nella sua fase incipiente, ma già si avvertiva conseguentemente la necessità di precisare le ragioni del perché proprio Craig, lì e allora:

Ripensare l’opera di Craig significa, ancora oggi, rilanciare l’urgenza di riparlare del teatro, della sua qualità, della sua motivazione, dei suoi luoghi. In un’epoca di transizione, di forti cambiamenti sociali appare opportuno ripercorrere criticamente esperienze come quelle dei riformatori teatrali del primo Novecento. Oggi la situazione del teatro mostra tratti diversi da quelli nei quali si era sviluppata la ricerca di Craig all’inizio del secolo. Operiamo e viviamo in un mondo in cui, con l’affermarsi di nuovi sistemi di comunicazione, le società cominciano a mescolarsi e le distanze tra i linguaggi si riducono. Nuove conquiste vivono accanto a privilegi antichi e a vecchie ingiustizie. Un mondo diverso, di qualità imprevedibile, dominerà il prossimo secolo, il prossimo millennio.

Oggi il problema del rinnovamento, della ricerca, dell’avanguardia artistica – in una società di massa in rapida tecnologizzazione – si pone in termini completamente diversi rispetto alle ansie di assolutezza, di universalità, di purezza che avevano segnato l’esperienza di protagonisti come Craig. Possiamo qui misurare la distanza che ci separa da quell’intensa tensione «riformatrice» che aveva caratterizzato, non solo nel teatro, gli esordi del Novecento. Craig come Appia, come Brecht, come Artaud: per tutti lo stesso sforzo di liberare il teatro vivente dal teatro (morente).[2]

Le parole di Isola e Pedullà rivestono ancora oggi carattere di attualità, un’attualità resa ancor più urgente e forse anche sofferta dal compimento di ciò che nella mente dei due studiosi all’epoca assumeva i contorni di una vaga, seppur inquietante prefigurazione.

Ho fin qui insistito sul convegno craighiano del 1989 non certo per quella sorta di attitudine retrospettiva che cerca di giustificare l’oggi cercando di acquisire una presunta autorevolezza appoggiandosi a eventi del passato (è questa una delle tante malattie che affliggono le discipline dello spettacolo al pari di quella che risolve il campo di indagine nella più immediata contemporaneità: l’ottuso vezzo antiquario che si contrappone all’altrettanto ottusa esaltazione del presente) ma perché quel lontano convegno rappresenta, almeno negli studi italiani un imprescindibile punto di riferimento.

Nei trent’anni che ci separano dal convegno del 1989 il progredire degli studi non solo ha permesso la conoscenza di aspetti inediti del pensiero e della carriera di Craig, ma ha addirittura modificato significativamente il modo di guardare al regista inglese, ora affrontato attraverso prospettive particolarmente attente al contesto culturale in cui egli ha operato, ora studiato cercando di far luce sui meccanismi più reconditi del suo lavoro teorico e creativo, in una parola quello che potrebbe essere definito come il backstage della sua visone teatrale. Non è certo questa la sede per una ricognizione esaustiva della letteratura critica craighiana, e quindi mi limiterò a rinviare, specialmente per gli studi non italiani, a quelli citati nei contributi di questo volume, segnalando piuttosto alcune nuove acquisizioni successive al convegno fiorentino del cinquantenario, anch’esse certamente occasionate dalla ricorrenza della scomparsa del regista inglese. Si tratta di lavori che affrontano la figura di Craig a partire dai sistemi di relazioni con cui egli è entrato in contatto, come nel caso di un articolo di Min Tian dedicato al pittore californiano Michael Carmichael Carr e a sua moglie Catarina Elisabeth che negli anni del soggiorno fiorentino coadiuvarono aiutarono Craig nella elaborazione del suo Model stage,[3] oppure riaffrontano le tematiche cruciali del lavoro di Craig secondo prospettive inedite, come il recentissimo contributo di Didier Plassard La velocità del cavallo e quella della lumaca: teorie e pratiche della Übermarionette in Gordon Craig,[4] ma si segnala anche Action, Scene, and Voice: 21st-Century Dialogues with Edward Gordon Craig, numero monografico di «Mime Journal» a cura di Jennifer A. Buckley e Anne Holt,[5] in cui compaiono tra gli altri contributi di due studiosi presenti al convegno fiorentino, Harvey Grossman e Patrick Le Boeuf, mentre sul versante italiano si distingue il recentissimo e interessante volume di Paola Degli Esposti, La Über-Marionnette e le sue ombre. L’altro attore di Edward Gordon Craig.[6]

Mi preme tuttavia ricordare anche l’immediato precedente di questi atti sulle pagine di «Biblioteca Teatrale», il numero monografico I teatri di Craig curato da Nicola Pasqualicchio e Monica Cristini,[7] dove compaiono i contributi di diversi studiosi che avrebbero poi partecipato al convegno fiorentino del 2016, a cominciare dagli stessi Pasqualicchio e Cristini, i cui articoli si sono soffermati sul rapporto tra Edward Gordon Craig e Danilo Lebrecht a partire dai loro carteggi, conservati presso la Biblioteca Nationale de France e il Fondo Montano la Biblioteca Civica di Verona, presentato nel contributo di Agostino Contò, e di cui il volume presenta un’ampia selezione. Di particolare interesse, specie per gli sviluppi presentati nel convegno del cinquantenario, il saggio di Lorenzo Mango il quale – sulla scorta del suo fondamentale volume L’officina teorica di Gordon Craig[8] nel quale ripercorre con acume e rigore filologico la genesi di The Art of the Theatre nel quadro della temperie culturale primonovecentesca – avvia una riflessione su Craig e il Moderno; mentre Harvey Grossman e Ferruccio Marotti, rileggono la vicenda craighiana secondo l’ottica di due testimoni oculari: il primo, antico allievo di Craig negli anni Cinquanta, mette in rilievo le diverse istanze artistiche e culturali alla base della formazione e dell’idea di teatro del Maestro; Marotti, che può vantare una lunga frequentazione con Craig ed è stato l’apripista degli studi craighiani in Italia, rilegge invece le vicende non sempre lineari della documentazione su Craig, anche alla luce della dei prolungati soggiorni a Vence in cui poté entrare in contatto con materiali di prima mano. Infine, Paola Degli Esposti entra nel merito di aspetti che in certa misura sono ricorrenti anche nelle pagine di questo volume, quelli relativi alle strategie di occultamento messe in atto da Craig nel suo percorso artistico, mentre Donatella Orecchia affronta l’esperienza di Craig a partire dalle influenze esercitate su di lui dalla tradizione attorica italiana, da Tommaso Salvini a Giovanni Grasso, dalla Duse a Ettore Petrolini.

Veniamo quindi ai contributi del convegno Per Edward Gordon Craig nel cinquantenario della morte (1966-2016). Frutto della collaborazione tra il Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo dell’Università degli Studi di Firenze, il Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux, il British Institut of Florence, il Teatro della Toscana – Teatro della Pergola e la Compagnia Lombardi Tiezzi, il convegno ha affrontato la figura di Edward Gordon Craig strutturandosi in una serie di interventi che si sono disposti, si potrebbe dire naturalmente, attorno ad alcuni dei principali ambiti anche concettuali emersi dal lungo dibattito storiografico e critico degli ultimi decenni. Tra questi, anche se non è facile dipanare la matassa della teoresi e delle pratiche del regista inglese, si distinguono Craig e l’attore, nel quadro della teorizzazione sulla Supermarionetta; i suoi rapporti con l’architettura e le arti figurative, specialmente per ciò che riguarda la sua attività grafica; Craig e la modernità, in una prospettiva di contestualizzazione della sua teorizzazione teatrale e del suo fare artistico; le scene di Craig: quelle teorizzate, quelle realizzate, oppure quelle che hanno preso forma nella sua opera grafica e nella sua quasi maniacale attitudine di collezionista di immagini; Craig e l’Italia, in particolare Firenze e gli anni del soggiorno in Liguria.

Il contributo con cui si aprono gli atti del convegno del cinquantenario (Craig and Isadora: Their Artistic Relation), anche se non si presenta nella tradizionale veste del saggio di carattere scientifico, assume tuttavia un’importanza particolare: ne autore è Harvey Grossman, attore e regista statunitense, che del magistero di Craig è stato testimone diretto in quanto suo allievo e assistente verso la metà degli anni Cinquanta, e che può essere considerato come uno dei principali divulgatori della lezione del Maestro. Grossman affronta con una notevole carica suggestiva uno dei concetti cardine della riflessione teorica e dell’intera parabola artistica di Edward Gordon Craig, quello del movimento, visto attraverso la lente del sodalizio sentimentale e artistico tra il regista inglese e Isadora Duncan. Il percorso tracciato dall’antico allievo di Craig si configura come una vera e propria operazione di carattere drammaturgico, facendo agire Craig e la Duncan attraverso la messa in sequenza di frammenti dei loro scritti. Grossman dà voce a Edward e Isadora mediante un dialogo a distanza, estrapolando da L’arte del teatro di Craig e da La mia vita, la biografia artistica della danzatrice californiana, quei passi in cui i due artisti si interrogano sulle radici e sull’essenza più profonda del teatro e le individuano appunto nel movimento. Questa specie di duetto tra Craig e la Duncan, intervallato dalle rapide interpolazioni con cui Grossman chiarisce il loro pensiero, consente di far emergere distintamente la profonda influenza esercitata dalla Duncan. Non si tratta tanto di una generica fascinazione artistica quella subita da Craig, quanto piuttosto di un orientamento significativo della propria visione teatrale: si può certamente affermare che nel processo che porterà a piena maturazione l’idea di teatro del grande regista inglese, il rapporto con la Duncan diventa elemento generatore di una concezione teatrale che, in parallelo alla crescente consapevolezza dell’inaffidabilità del corpo dell’attore sulla scena, vede nel movimento l’elemento originario e l’essenza più profonda del teatro. Si tratta di aspetti certamente non secondari nel panorama generale dell’esperienza artistica di Gordon Craig e lo dimostra l’attenzione che vi è stata rivolta in questi ultimi anni, come si evince anche dai recenti contributi di Franco Ruffini,[9] Olga Taxidou[10] e quello precedentemente citato di Paola degli Esposti.[11]

Della complessità della figura di Edward Gordon Craig rende significativamente conto il saggio di Lorenzo Mango (Note per uno studio sul rapporto tra Edward Gordon Craig e il Moderno), avviando un’ulteriore riflessione su una tematica che era stata declinata in altra forma nel citato numero di «Biblioteca Teatrale» curato da Nicola Pasqualicchio e Monica Cristini.[12] Questa riflessione non può prescindere dal contesto culturale di cui è debitrice la formazione di Craig e in cui il giovane uomo di spettacolo si immerge e attinge per vie dirette e indirette, oscillando tra l’urgenza del nuovo e della Modernità e categorie concettuali, estetiche o formali di più evidente matrice ottocentesca. La rete di relazioni intrattenute da Craig si colloca grosso modo nello stesso arco cronologico delle vicende oggetto dell’indagine sull’officina teorica craighiana. Qui, secondo una logica di maggiore approfondimento, Mango costruisce un percorso teso ad illustrare la fitta rete di influenze culturali, di rapporti personali, di suggestioni artistiche che presiedono al formarsi della formulazione teorica della visione teatrale del grande regista inglese, secondo una prospettiva di analisi che necessariamente deve oltrepassare i limiti della pura e semplice esperienza teatrale primo-novecentesca per approdare ad ambiti artistici, culturali e operativi capaci di concorrere a una efficace definizione della Modernità. Come sempre accade, anche nel caso di Craig il teatro di per sé non è sufficiente a definire se stesso o a chiarire i fondamenti alla base di modelli, prospettive teoriche e prassi sceniche e attoriali: essenziale, in questo senso, il rapporto col mondo delle arti figurative e l’architettura, quest’ultimo sulla base anche delle profonde implicazioni personali derivate dalla relazione col padre Edward Godwin. Il percorso tracciato da Mango mette in luce che l’orizzonte culturale di Craig, in quanto figlio del proprio tempo, si inserisce pienamente nella temperie culturale tardo-ottocentesca e primo-novecentesca caratterizzata da movimenti quali Arts and Crafts, dominati da figure che nella formazione della personalità artistica e della visione teorica di Craig ebbero un particolare rilievo come William Morris, e soprattutto John Ruskin, di cui Mango evidenzia efficacemente l’influenza per ciò che pertiene la presa di distanza di Craig dalla presenza soggettiva dell’artista e la ricerca di una Bellezza idealizzante permeata di una forte spiritualità, il che spiega anche i non infrequenti accenti mistici del regista inglese. Di non minore importanza il rapporto con l’architettura, veicolato attraverso il legame con l’architetto belga Henry Van der Velde, incontrato durante il soggiorno in Germania tra il 1904 e il 1905 per il tramite del conte Harry Kessler, cui si aggiunge, per via indiretta, un ulteriore legame con le prassi architettoniche. Un rapporto certamente fondato su reciproche suggestioni e che, al di là dell’infruttuoso tentativo di creare un teatro a Weimar, consentì a Craig di avviare un percorso teso alla ricerca di un’idea di Bellezza pienamente incardinata sulla contemporaneità e alla radicale semplificazione strutturale dello spazio scenico, anche sulla base di possibili analogie con l’operato dell’architetto austriaco Adolf Loos, inserendosi così in un processo che, ancora oscillante tra rinnovamento e tradizione, può essere definito come un Moderno di transizione.

La memoria del citato convegno fiorentino del 1989 è il punto di partenza del contributo di Gianfranco Pedullà (Gordon Craig nel teatro europeo del Novecento) che per certi aspetti può essere considerato come una sorta di pendant di quello di Lorenzo Mango, nel senso che l’esperienza artistica di Edward Gordon Craig viene riletta in una prospettiva tendente a mettere in luce come la visione teatrale del regista inglese abbia influito sulle prassi sceniche degli anni che lo hanno visto all’opera – e in questo senso Craig può essere considerato a pieno titolo costruttore della modernità – e successivamente anche nelle esperienze legate al secondo dopoguerra.

Ricorda assai opportunamente Pedullà come Craig, costantemente in equilibrio tra la tensione verso il teatro dell’avvenire e la piena consapevolezza della tradizione, attraverso il progressivo prosciugamento del suo segno scenico maturi la messa a punto della piena autonomia del linguaggio teatrale, vera propria pietra angolare della sua impalcatura teorica. Pedullà rievoca le tappe fondamentali di questo percorso, mettendo in evidenza come l’elaborazione del pensiero craighiano passi anche dallo sviluppo di una vena polemica nei confronti della drammaturgia a lui contemporanea e più in generale contro la dimensione letteraria del teatro – significative a questo proposito le critiche a D’Annunzio – finalizzata a ribadire la necessità di mettere a fuoco le specificità della scrittura scenica quale elemento fondante del linguaggio teatrale, anche sulla scorta di codici linguisti elaborati nell’ambito di forme spettacolari del passato e tendenti alla piena autonomia linguistica del teatro in quanto autonoma forma d’arte.

Da qui la necessità della formazione professionale delle maestranze teatrali, da qui la necessità di sperimentare anche in territori impervi nella speranza di imporre, per così dire, la propria idea di teatro. Emblematica, secondo Pedullà, la messa in scena dell’Amleto al Teatro d’Arte di Mosca del 1912, sia dal punto di vista delle difficoltà di relazione tra Craig e Stanislavskij, sia da quello delle numerose influenze estetiche che permeano l’allestimento, e che confermano, anch’esse, la grande attenzione rivolta da Craig al processo di creazione artistica.

L’Amleto costituisce un punto di svolta nel percorso craighiano, un percorso che porterà l’artista inglese a peregrinare a lungo in Italia e in Europa: quelli tra gli anni Venti e Trenta del Novecento sono anni di progressiva disillusione e di progressivo isolamento, ma che non impediscono a Craig di coltivare rapporti con alcuni tra i più importanti esponenti del teatro sovietico, quali Ejzenštejn, Mejerchol’d, Tairov, intrattenuti anche nel corso di un viaggio a Mosca nel 1935. Anni intensi, di cui, come rileva Pedullà, Craig percepiva consapevolmente la pesantezza derivante dal precipitare della situazione politica in Europa e che porteranno nel corso del tempo alla sua definitiva stabilizzazione in Provenza. Ma forse sono proprio gli anni vissuti in Francia, dapprima a Parigi, poi nel sud del paese, in cui Craig – ormai lontano dalla sua pur sporadica pratica della scena – intrattiene rapporti con uomini di teatro come Étienne Decroux e Jean-Louis Barrault e diventa il punto di riferimento di numerosi giovani artisti, a cominciare da Peter Brook, fino a giungere, in epoca più recente, e per via indiretta, a Tadeusz Kantor, il cui Teatro della Morte, come sottolinea Pedullà, è certamente debitore della teoria della Supermarionetta.

La rarefazione del segno grafico è una delle caratteristiche peculiari dei disegni e dei bozzetti di Edward Gordon Craig che riflettono, in modo eloquente, la sua idea di teatro, resa sensibile in spazi scenici anch’essi caratterizzati da una sostanziale rarefazione compositiva, dominata dalla purezza delle linee degli screens che scompartiscono lo spazio scenico rendendolo disponibile, grazie al movimento dei suoi elementi strutturali, a una gamma pressoché infinita di significati simbolici e conferendogli anche un’aura di profonda sacralità. Questa dimensione – resa possibile dalla dialettica compositiva tra la luce e gli elementi costituitivi della scena – che traspare nell’opera grafica di Craig, diventa nel saggio di Le Boeuf (Edward Gordon Craig e l’aldilà) il territorio privilegiato per avviare una ricognizione tendente a far emergere il rapporto del regista inglese col sacro e col divino. Questa prospettiva di indagine appare pienamente legittima e pertinente: se percorriamo ad esempio gli scritti teorici di Craig possiamo imbatterci con una certa frequenza in allusioni o espliciti riferimenti a una dimensione spirituale, mistica, alimentata da una continua ricerca, seppur vaga e indistinta, di un rapporto col divino. Anche questo atteggiamento si inserisce a pieno titolo in quella ricerca dei “princìpi” del teatro che, come ha messo bene in evidenza Mirella Schino in recentissimo e fondamentale contributo, ha contrassegnato la generazione dei maestri del teatro primo-novecentesco.[13]

Questo aspetto dell’universo craighiano in effetti non è marginale e c’è addirittura chi ha impostato il proprio studio su Craig su questo asse. Mi riferisco in particolare a un volume di Giovanni Attolini dedicato al maestro inglese che arriva a delineare l’immagine di una sorta di Craig mistico, al punto da intitolare il capitolo di aperture del libro L’arte del teatro: una religione.[14]

La riflessione di Le Boeuf prende le mosse da due disegni conservati nel Fondo Edward Gordon Craig del Département des Art du Spectacle della Bibliothèque Nationale de France. Le presenze fantasmatiche che compaiono nei due disegni inducono lo studioso francese ad avviare una ricognizione su Craig e l’aldilà, intendendo con questo termine tutto ciò che pertiene alla dimensione del sacro e del divino. Nonostante la sua natura aconfessionale Craig – evidenzia Le Boeuf – intrattiene con questa sfera un rapporto costante, continuando a declinare per altre vie e in altre forme quel rapporto col moderno che è stato oggetto delle pagine di Lorenzo Mango. In quest’ottica, il saggio mette allora in evidenza la rete delle filiazioni, dei prestiti, delle influenze, inanellando una serie cospicua di punti di contatto con alcune delle più significative personalità del panorama intellettuale e culturale anglosassone dell’Ottocento e del primo Novecento, da William Blake a Walt Whitman, da William Butler Yeats a Maurice Bucke, a John Paul Cooper. Da questo palinsesto di relazioni emergono elementi che concorrono alla definizione della spiritualità del regista inglese, che si manifesta secondo polarizzazioni che in progresso di tempo diventeranno veri e propri leitmotiv costituitivi della teoresi craighiana: l’Immaginazione – intesa come facoltà che permette all’uomo di creare Dio; il movimento come principio regolatore del Cosmo; la marionetta, come entità di origini divine.

Tra i molti incontri che hanno costellato la biografia artistica di Craig, quello con Eleonora Duse assume un valore particolare. Della collaborazione tra queste due fortissime personalità in occasione della messa in scena di Rosmerholm di Ibsen nel dicembre 1906 al Teatro della Pergola di Firenze sappiamo molto, anche grazie al volume di Francesca Simoncini dedicato a questo allestimento.[15] Qui, in queste pagine (Le visioni scenografiche di Craig, il corpo della Duse e il mestiere del teatro), la stessa autrice affronta ulteriormente il medesimo episodio da un’angolazione diversa, cercando di cogliere, al di là del dettaglio storico, le modalità attraverso le quali la Duse avviò raffinate strategie di avvicinamento nei confronti di uno dei più interessanti giovani sperimentatori della nascente regia teatrale, nonché le dinamiche più o meno evidenti sottese a questa relazione tanto potenzialmente fruttuosa quanto, per certi aspetti, apparentemente paradossale. Sarebbe infatti estremamente riduttivo, ci fa capire Simoncini, considerare il rapporto tra la Duse e Craig nei termini di un conflitto tra la più grande attrice del teatro italiano e uno dei più intriganti esponenti di quella che sarebbe diventata la generazione dei maestri del teatro del primo Novecento. Il punto centrale della relazione tra i due non sta infatti nella contrapposizione tra vecchio e nuovo, tra grande attrice e giovane regista, quanto piuttosto in una pressoché identica tensione di ricerca e di rinnovamento del teatro del loro tempo. Di Craig conosciamo l’excursus teorico che lo avrebbe portato di lì a breve a teorizzare Supermarionetta, non senza consonanze con la stessa Duse in merito alla concezione dell’attore; dell’attrice italiana, sono invece significative, come viene opportunamente notato, le modalità del suo percorso verso il nuovo: un percorso che la spingerà sempre di più ad avvicinarsi alla temperie simbolista, sia attraverso la frequentazione con Aurélien Lugné-Poe, che la introdusse a una visione simbolista dei testi ibseniani attraverso un insistito lavoro sulle loro strutture drammaturgiche (quasi delle “prove di regia a tavolino” lo definisce Simoncini), sia mediante il trattamento effettuato dalla stessa attrice del testo di Rosmersholm, piegato alla propria sensibilità artistica da un accurato lavoro di traduzione e di intervento drammaturgico finalizzati alla messa in scena triestina della pièce, che precedette di poco quella fiorentina. La storia di questo allestimento è estremamente nota, così come nota è quella delle riprese del testo ibseniano alla fine di dicembre del 1906 e dell’8 febbraio 1907 a Nizza. Al di là del dato di cronaca, è particolarmente interessante la messa in luce di due aspetti, che chiariscono il senso complessivo del rapporto tra la Duse e Craig. La prima sottolineatura riguarda la scarsa ricezione da parte della critica italiana della carica innovativa della collaborazione tra i due artisti, il che conferma da un lato la cronica sfasatura italiana rispetto alla temperie europea connessa all’affermazione della regia e la posizione sempre più divergente della Duse rispetto al teatro italiano del suo tempo; dall’altro che la rottura traumatica tra l’attrice e Craig affonda le sue radici non tanto in un conflitto tra due personalità titaniche, quanto piuttosto nell’inadeguatezza dell’artista inglese nei confronti della materialità delle pratiche sceniche e del necessario adattamento alle differenti condizioni ambientali: il che ribadisce la tensione tutta ideale della sua visione teatrale.

L’eclettismo di Edward Gordon Craig trova ampie conferme nei fondi documentari che raccolgono i materiali prodotti durante la sua lunghissima attività. Tra questi, spicca per consistenza e articolazione il Fondo Craig della Bibliothèque Nationale de France al cui interno, nella IX sezione (Craig collectionneur), sono contenuti gli album cui si rivolge l’indagine condotta da Cosimo Chiarelli (Performances dello sguardo. Gli scrapbooksdi Edward Gordon Craig tra pratica creativa e processi di creazione). Si tratta di oggetti eterogenei che si sviluppano lungo l’asse della documentazione visiva, sia realizzata dallo stesso Craig mediante schizzi, sia attraverso l’accumulazione in numerosi scrapbooks di reperti visivi di varia provenienza (ritagli di giornale, stampe, fotografie), spesso postillati da note manoscritte. Essi si inseriscono in un contesto culturale che caratterizza la fine del secolo XIX: da un lato questi album costituiscono per il futuro regista inglese non solo un’occasione ricreativa ma anche un momento di formazione – specialmente laddove questa pratica di svolge in ambito famigliare –, dall’altro si collocano in un più ampio orizzonte di riferimento, richiamando la nozione dell’atlante warburghiano.

Chiarelli analizza questi documenti del Fondo Craig cercando innanzitutto di mettere in evidenza l’architettura complessiva dell’intera raccolta e di chiarire la loro logica interna individuandone le possibili partizioni, ora sulla base di un principio di coerenza ed omogeneità, ora mettendo opportunamente in rilievo che l’omnivora personalità di Craig era solita procedere per scarti, inaspettate agglutinazioni e repentini sconfinamenti, rendendo così impossibili in alcuni casi specifiche partizioni. È questo un aspetto fondamentale del lavoro analitico di questo contributo, che nel descrivere la struttura interna degli scrapbooks concorre a chiarire la loro funzione di «palinsesto» e di «dispositivo ipertestuale», mettendo così in luce la loro natura dinamica e riuscendo a farci percepire, si potrebbe dire, il “respiro” della raccolta. Gli scrapbooks sono il luogo in cui si manifesta e prende corpo quella che Chiarelli definisce come «l’iconofilia bulimica» di Gordon Craig, e che può essere considerata come l’elemento generatore di un’idea di teatro fondata su una dimensione cinetico-visiva. Gli scrapbooks appaiono quindi come il backstage dell’officina teorica di Craig. Significativa a questo proposito la cronologia della loro realizzazione, individuata verosimilmente da Chiarelli tra la fine degli anni Ottanta del secolo XIX e il 1904, immediatamente prima della elaborazione dei suoi principali scritti. Essi costituiscono anche il materiale bruto che poi si sarebbe sedimentato nella partitura visiva delle pagine di «The Mask», frequentemente impreziosite da disegni e soluzioni grafiche dello stesso Craig (si pensi ai raffinati capilettera che decorano l’inizio de articoli), arricchite da un’iconografia in molti casi inedita, ma soprattutto variegata, offrendo al lettore un’ampia campionatura visiva di riferimento, dalle planimetrie settecentesche dei teatri della Roma alle xilografie delle sacre rappresentazioni fiorentine, dai Balli di Sfessania di Jacques Callot alle danze delle geishe giapponesi.[16] In questo processo di stratificazione del materiale iconografico, percorrendo l’insieme degli scrapbooks si assiste, rileva ancora Chiarelli, ad un progressivo asciugarsi del segno grafico e delle immagini in una dimensione dominata dall’assoluta essenzialità delle linee e della luce, che letta a posteriori appare chiaramente anticipatrice della rigorosa e sintetica semplicità degli screens.

Il contributo di Laura Caretti (Craig e l’impossibile magia di Pigmalione: Black Figures per Hamlet) prende le mosse da Firenze, quando Craig, dapprima presso la villa Il Santuccio in via di San Leonardo, poi all’Arena Goldoni, cercherà di dar forma a quanto si era prefigurato negli anni precedenti in Germania, quelli della sua cosiddetta officina teorica. È questo un periodo ancora in parte segnato dall’influenza di Isadora Duncan, durante il quale la danzatrice diventa in certa misura forza propositiva e sponda dialettica per la creazione di Craig, dando luogo a progetti che rimarranno ancora una volta lettera morta. Ma gli anni fiorentini sono anche quelli in cui Craig inizia a cimentarsi in una produzione grafica significativa, quella delle black figures, che costituiscono il terreno di indagine dell’autrice. Si tratta di una serie di xilografie che traggono origine dalle white figures, vere e proprie prefigurazioni della Supermarionetta, sagome in legno raffiguranti vari personaggi collocate da Craig nello spazio sperimentale del suo model stage elaborato tra il 1907 e il 1908, e che appunto delle xilografie costituivano la matrice. L’analisi di queste immagini costituisce per Caretti l’occasione per mettere a fuoco i meccanismi del percorso creativo di Craig, a partire dall’impulso originario delle sue visioni interiori che si sarebbero poi attuate nella concreta fisicità delle black figures, che ci pare di poter considerare come un analogon del punctum barthesiano. Se per Roland Barthes il punctum di un’immagine fotografica non era costituito dall’apparente soggetto principale della foto ma da un dettaglio che potesse sollecitare profondamente lo sguardo dell’osservatore, in Craig le contraintes materiali connesse all’utilizzo del bulino sulle tavole lignee guidavano e obbligavano la sua mano a cogliere, mediante l’assoluta precisione del taglio, l’essenza più profonda dei personaggi raffigurati, i loro gesti qualificanti, facendo così emergere la sintesi perfetta tra i suoi tratti caratteristici e gli effetti della tensione drammatica. Esemplare in questo senso, ricorda opportunamente Caretti, la black figure che ci mostra Elettra: questa immagine rivela come l’essenza di un personaggio possa essere racchiusa in un solo gesto, che si pone quasi marginalmente rispetto al suo assetto corporeo complessivo, ma che proprio in questa sua marginalità trova la sua maggiore e icastica efficacia. Ugualmente esemplare è la ricostruzione del percorso visivo sviluppato da Craig attorno al tema di Amleto, tragedia che riteneva impossibile da rappresentare, ma che tra il 1909 e il 1912 sarebbe diventata parte importante della sua attività, con la preparazione della celebre messa in scena al Teatro d’Arte di Mosca. Un Amleto che, al di là della rappresentazione moscovita, vive anche nello spazio delle black figures e prova ad esistere anche nelle pagine di quella edizione «senza pari» che avrebbe dovuto consistere in una sorta di progetto registico ipertestuale in tre volumi disposto lungo l’asse del primo in folio della tragedia shakespeariana. Un’edizione, questa, che non vedrà mai la luce: un altro dei molti atti mancati della vicenda artistica di Craig. Ma in ogni caso, le black fugures pubblicate nelle più tarde edizioni tedesca e inglese del 1928 e del 1930, rivelano, grazie alla potenza del segno grafico, i principi della concezione teatrale craighiana, costituendo da un lato un possibile modello per l’attore, dall’altro la traccia ineffabile della Supermarionetta.

Uno dei periodi meno conosciuti della permanenza di Craig in Italia è quello relativo al soggiorno a Rapallo negli anni compresi tra il 1918-1920, di poco successivi alla chiusura del periodo fiorentino e all’inizio del cosiddetto periodo ligure che va dal 1917 al 1936, certamente quello più lungo vissuto dall’artista nella penisola. Chiave di volta di quegli anni è il rapporto intrattenuto da Craig con lo scrittore veronese Danilo Lebrecht, per la cui ricostruzione è di fondamentale importanza la corrispondenza intercorsa tra i fra i due, conservata da un lato presso il Fondo Craig della Bibliothèque Nationale de France e dall’altro presso il Fondo Lorenzo Montano della Biblioteca Civica di Verona, alla quale Nicola Pasqualicchio già fatto ricorso affrontando il rapporto Craig/Lebrecht in contributo apparso in un numero recente di «Biblioteca Teatrale».[17]

Qui (Tra Roma e Rapallo: Craig 1918-1920), la documentazione epistolare viene rimessa in gioco allo scopo di far luce sugli anni rapallesi, anni che nel percorso biografico e artistico di Gordon Craig sembrarono esser stati vissuti nel segno di una continua irrequietezza, e che possono essere considerati come oscillanti tra i poli opposti dell’illusione e della disillusione. La conclusione dell’esperienza fiorentina, con la chiusura della scuola dell’Arena Goldoni, costituisce per Craig come la perdita di un centro. È l’inizio di un itinerario che nel corso dei cinquanta anni che gli resteranno da vivere lo porterà a cambiare più volte dimora fino a giungere a Vence, in Provenza, dove concluderà la sua lunga esistenza. Gli anni di Rapallo sono di fatto l’avvio di questo percorso, non solo nel segno della ricerca di un luogo ideale dove dar forma e sostanza alle proprie visioni teatrali, ma anche del teatro in quanto tale, una ricerca tanto caparbia quanto impossibile, resa inattuabile proprio a causa dello scarto la potenza di un’idea di teatro e l’illusione di un pieno riconoscimento della bontà della propria proposta e, soprattutto, un adeguato sostegno finanziario alle proprie aporie.

Rapallo è il luogo da cui partono lo sguardo e la prospettiva progettuale di Craig, rivolti entrambi verso Roma, utopico Eldorado capace di sollevare il regista e teorico inglese dalle incombenti necessità materiali. È a partire da questa cornice di riferimento che le pagine di Nicola Pasqualicchio fanno emergere un ritratto di Gordon Craig in larga parte privato, composto da umane aspettative, altrettanto umane velleità e umanissime amarezze e disillusioni. Significativa da questo punto di vista, la citata corrispondenza con Danilo Lebrecht, rivelatrice non solo delle attese e delle speranze di Craig, ma anche delle sue intrinseche debolezze, delle richieste e delle pretese ai potenziali, ma sempre inadempienti, vacui e inaffidabili mecenati, di cui queste lettere lasciano trasparire inoltre l’incapacità di comprendere la visione teatrale craighiana, insieme a un sostanziale disinteresse. Ma al di là della percezione della nobiltà romana, in parte sicuramente distorta a causa di un crescente sentimento di delusione da parte di Craig, e al di là anche della condizione di isolamento vissuta durante il periodo rapallese, la focalizzazione proposta da Pasqualicchio apre un ulteriore inedito scorcio sulla rete di relazioni intrattenute dal regista inglese durante gli anni del suo soggiorno italiano, indicando opportunamente la necessità di una capillarizzazione della ricerca, calibrata su singoli segmenti cronologici, al fine di una comprensione contestualizzante della sua vicenda artistica.

Nella prospettiva di indagine indicata da Pasqualicchio si muove il saggio di Monica Cristini (Gordon Craig e il teatro in Italia. Due aneddoti), che sonda due episodi in apparenza marginali verificatisi durante il soggiorno di Edward Gordon Craig a Rapallo i quali, al di là della dimensione puramente aneddotica, acquistano un’importanza particolare in quanto rivelano aspetti poco conosciuti della mentalità e del modus operandi del regista inglese e al contempo consentono di mettere a fuoco con maggiore nitidezza frammenti del contesto in cui egli si trova ad operare. Una delle caratteristiche di Craig è senza ombra di dubbio quella di procedere secondo sequenze non lineari e, al di là della perentorietà e dell’apparente organizzazione razionale dei suoi scritti teorici, ciò che sta alla base del suo pensiero e soprattutto delle sue azioni si precisa attraverso successive sedimentazioni che producono solo col tempo una più chiara stratificazione di senso. Ancora una volta, la corrispondenza con lo scrittore veronese Danilo Lebrecht costituisce la fonte di primaria importanza che consente di arricchire ulteriormente il profilo del regista e di aggiungere complessità a una personalità di per sé già complessa.

Il contributo di Cristini conferma efficacemente la pervicace volontà di Craig – peraltro già messa in luce nello studio di Nicola Pasqualicchio – di entrare in contatto con gli ambienti italiani, e specialmente romani, più influenti della fine degli anni Dieci del XX secolo, allo scopo di trovare sostegno finanziario alle sue visioni teatrali o anche più semplicemente allo scopo di attirare la loro attenzione. Questa ricerca – che in certa misura inquina anche i rapporti in apparenza più sinceri, come quello con Lebrecht, dalla cui corrispondenza si intuisce da parte di Craig un’amicizia non completamente disinteressata – pare svilupparsi sulla base di strategie talvolta oblique. È ad esempio il caso fortemente emblematico dei suoi interventi dedicati Balli plastici di Fortunato Depero, mero pretesto per la costruzione una vera e propria messa in scena con la creazione di Mr. V, sotto il cui fantomatico profilo si adombrava verosimilmente lo stesso Craig, allo scopo di incuriosire e sensibilizzare il mondo teatrale romano sulla sua opera e in particolare sulla sua idea di una scena essenzialmente fondata sul movimento.

Anche questo episodio, incentrato su una palese strategia di mascheramento, conferma ulteriormente che la condotta di Craig non può prescindere da una dimensione spiccatamente virtuale, che non riguarda soltanto un’idea di un teatro che sembra vivere unicamente negli spazi dei suoi scritti teorici, dei suoi disegni e bozzetti, ma coinvolge anche ambiti in cui l’immediatezza, l’autenticità delle relazioni e la concretezza delle azioni gli avrebbero apportato esiti sicuramente più soddisfacenti. A questa latitudine si collocano i numerosi incontri mancati o conflittuali che hanno costellato la biografia umana e artistica di Craig. Tra questi, quello con Luigi Chiarelli riportato alla luce da Monica Cristini nella parte finale del suo contributo ancora a partire dalla corrispondenza tra Craig e Danilo Lebrecht, e che vide coinvolti il drammaturgo italiano e il regista inglese in un tentativo senza esito per la messa a punto di una nuova scena per la compagnia di Chiarelli al Teatro Argentina di Roma.

Gli anni trascorsi a Firenze costituiscono com’è noto uno snodo cruciale nel percorso artistico di Edward Gordon Craig. A questo periodo si rivolge il contributo di Alessandro Sardelli (Sull’Arena Goldoni in Oltrarno, dove EGC creava l’Arte del Teatro), che si struttura su più livelli, a cominciare da una rapida ricognizione sulla Firenze di ieri e di oggi che da un lato evidenzia l’inalterato assetto urbanistico del quartiere d’Oltrarno in cui si trovava l’Arena Goldoni, l’officina teorico-pratica in cui Craig elaborò una buona parte della sua idea di teatro, mentre dall’altro sottolinea la quasi completa scomparsa di quella particolare composizione sociale in cui convivevano naturalmente artigiani, famiglie signorili, piccoli commercianti, comunità straniere, tra cui spiccava quella inglese. Anche se lo scritto di Sardelli non va esplicitamente in questa direzione, la dicotomia tra la perfetta conservazione di parte della topografia urbana e il dissolvimento di quello che può essere considerato come l’elemento strutturale che ha da sempre caratterizzato il tessuto connettivo della società fiorentina, spiega perfettamente la scarsa risonanza del cinquantenario craighiano nella Firenze di oggi, una città spesso autoreferenziale, per lo più concentrata sulla conservazione della propria immagine incentrata sulle vestigia rinascimentali, quotidianamente segnata dal flagello dei flussi turistici.

Craig più di cent’anni fa aveva colto perfettamente l’intima natura della Firenze di allora: non è un caso la scelta di risiedervi, non è un caso la collocazione del suo cantiere creativo in Oltrarno, non è un caso l’idea di far sorgere la sua scuola per le arti del teatro nel complesso architettonico dell’Arena Goldoni, al centro di un quartiere ricchissimo di maestranze artigiane. Come mette pienamente in evidenza Sardelli, la visionarietà di Craig forse trova la massima espressione proprio qui, in questo scorcio della Firenze primo-novecentesca, mediante l’utopica prefigurazione di scuola e teatro come luogo di sintesi, di collaborazione e reciproco rispecchiamento tra le arti e i mestieri del teatro, un vero e proprio sistema integrato dal sapore quasi wagneriano. Ed è ancora qui, negli spazi dell’Arena Goldoni, che Craig tenta di operare un’ulteriore sintesi, quasi nel tentativo di superare quello scarto irriducibile tra la teoresi e le costrizioni pratiche della scena che ha costantemente caratterizzato il suo operato artistico, spesso con gli esiti negativi che ben conosciamo.

Il soggiorno fiorentino è anche il momento in cui Craig elabora la sua visione teatrale più celebre, messa a fuoco nel saggio L’attore e la Supermarionetta pubblicato nel 1907 nel primo numero della rivista «The Mask», ed è altresì il tempo della sperimentazione di nuove strutturazioni della scena, con la messa a punto del model stage e della scena mobile realizzata mediante il sistema degli screens, di cui Sardelli in queste pagine ripropone la relazione tecnica relativa alla richiesta di brevetto dell’Apparecchio per la produzione di effetti scenici, presentata da Craig nell’aprile del 1910 all’Ufficio della Proprietà industriale del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, ulteriore tentativo di riconoscimento della propria attività creatrice.

Anche l’articolo di Alessandro Nigro (“Brief Encounter”: Edward Gordon Craig e i Berenson, con una nota sulla cartella di incisioni del 1908) approfondisce il periodo fiorentino di Edward Gordon Craig, affrontandolo però attraverso la particolare prospettiva del rapporto tra il regista inglese e Bernard Berenson, uno tra i più importanti storici dell’arte di fine Ottocento e inizio Novecento. Il contributo di Nigro si affianca a quelli di Mango, Paqualicchio, Cristini e Sardelli e insieme ad essi costituisce un vero e proprio sistema integrato, non solo perché di fatto mette in luce, sia pure da una diversa angolazione, il rapporto di Craig col suo tempo e con la modernità, ma apre squarci vivacissimi sulla dimensione privata dell’artista, sul suo modo di tessere relazioni, sulle strategie finalizzate alla ricerca di sostegno ai propri progetti, in una perpetua oscillazione tra istanze visionarie, abbandoni sensuali e miserie della sussistenza quotidiana.

Dopo aver ritracciato il percorso critico di Berenson negli anni precedenti l’incontro con Craig – quelli cioè dedicati alla stesura dei celebri volumi sulla pittura fiorentina, dell’Italia Centrale e Settentrionale – Nigro illustra il rapporto tra lo storico dell’arte e il regista inglese evidenziando la rete delle affinità e divergenze culturali, e sottolineando comunque una sostanziale comune avversione per le esperienze dei movimenti di avanguardia. Ma poi, sulla scorta delle preziose informazioni desunte dalla corrispondenza e dai diari della moglie di Berenson, Mary, l’autore traccia un vivacissimo quadro della vita di Craig durante il breve periodo della frequentazione con i Berenson. Si tratta comunque di un quadro tendenzioso, come evidenzia opportunamente Nigro, viziato certamente dall’ottica preconcetta della Berenson, ma l’immagine del «selvaggio sognatore» si staglia in ogni caso vivida sullo sfondo delle occasioni che hanno scandito il rapporto con l’artista inglese, risultando, agli occhi del lettore odierno, ricca di fascino, così come lo era per l’eterogeneo pubblico, in prevalenza femminile, che animava gli altolocati consessi organizzati nelle ville delle colline fiorentine. Emerge così la figura di un Craig squattrinato seduttore, a tratti ingenuo sperimentatore, bizzarro animatore di comunità bohémiennes, perennemente in bilico tra l’ambizioso riconoscimento del proprio operato e la necessità di soddisfare urgenze primarie della sussistenza.

Ma questo quadro così appassionante e vivace, come chiarisce efficacemente Nigro, sotto l’accattivante patina della dimensione aneddotica si nascondono istanze e dinamiche assai più profonde. Esse, se da un lato riguardano quelle strategie autopromozionali che diventeranno in progresso di tempo il tratto consueto e caratteristico anche degli anni rapallesi, dall’altro fanno emergere dalla rete delle accidentate relazioni di Craig con la comunità angloamericana di Firenze vicende che – se lette nel quadro generale della filiera della sua elaborazione teorica e della sua prassi scenica –, acquisiscono in realtà un rilievo che va ben oltre il loro carattere apparentemente episodico, costituendosi come snodi cruciali del percorso artistico del regista inglese. Esemplare da questo punto di vista la vicenda, brillantemente ricostruita da Nigro, delle serie di stampe realizzate da Edward Gordon Craig durante la breve ed intensa frequentazione con la famiglia Berenson e che, al di là dell’immediata e ricorrente valenza di riconoscimento artistico ed economico, dal punto di vista della configurazione della concezione scenica e costumistica di Craig si pongono come un significativo e soprattutto coerente trait d’union tra la proposta scenica del Rosmersholm ibseniano del 1906 e il futuro allestimento dell’Amleto al Teatro d’Arte di Mosca.

Ultimo contributo del volume il testo della conferenza spettacolo Gordon Craig e Stanislavskij. Amleto al Teatro d’Arte di Mosca dedicata al celebre allestimento del 1912, realizzata da Sandro Lombardi, Ferruccio Marotti e Federico Tiezzi nel Saloncino del Teatro della Pergola a conclusione del convegno del cinquantenario, e qui presentata dallo stesso Marotti (“Amleto” a Firenze) in pagine che ripercorrono vividamente alcuni momenti della relazione tra Craig e Isadora Duncan strettamente connessi all’approdo del regista a Firenze, in anni che furono senza obra di dubbio propedeutici alla creazione dello spettacolo moscovita.

Il percorso fin qui tracciato attraverso i contributi del convegno conferma ulteriormente la natura quantomeno ancipite di Edward Gordon Craig, perennemente sospeso tra l’impossibilità di dar forma sensibile alla sua idea di teatro e la stringente necessità di proiettare la sua visione teatrale nella lontananza del futuro. Tra i padri fondatori del teatro novecentesco è quello che più di altri ha contribuito a fornire una sistematizzazione teorica del concetto di regia e pur tuttavia, proprio in virtù di questo scarto irriducibile tra la preconizzazione del teatro del futuro e le ineludibili costrizioni della prassi scenica che ha sempre caratterizzato il suo fare teatrale, la sua figura appare caratterizzata da un profilo sfumato e inafferrabile, rivelandosi una delle personalità più enigmatiche del teatro europeo del primo Novecento. È un po’ come alcune delle figure che compaiono in molti dei suoi bozzetti scenografici, pure ombre, presenze fantasmatiche, che transitano improvvise sulla scena. In questo sta forse il suo fascino, in questo, per noi che di teatro viviamo, il nostro desiderio di capire.

Vorrei infine dedicare queste pagine alla memoria di Lia Lapini e Gianni Isola: se la sorte non avesse deciso diversamente sarebbero stati sicuramente protagonisti autorevoli di questo convegno.





[1] Lo spettacolo, Un dramma per pazzi, liberamente tratto dal Drama for fools di Edward Gordon Craig, prodotto da Mascarà Teatro per la regia di Gianfranco Pedullà, andò in scena al Teatro Auditorium Rodari di Campi Bisenzio dal 14 al 29 gennaio 1989.

[2] G. ISOLA-G. PEDULLÀ, Introduzione a Gordon Craig in Italia. Atti del convegno internazionale di studi (Campi Bisenzio, 27-29 gennaio 1989), a cura di G. I. e G. P., Roma, Bulzoni, 1989, pp. 10-11.

[3] M. TIAN, Edward Gordon Craig’s Two Collaborators: Michael Carmichael Carr and his Dutch Wife Catharina Elisabeth Voûte, in «Theatre Notebook», volume 70, n. 2, 2017, pp. 123-144.

[4] D. PLASSARD, La velocità del cavallo e quella della lumaca: teorie e pratiche della Übermarionette in Gordon Craig, in «Acting archives», a. VIII, n. 15, maggio 2018 (http://actingarchives.it/review/ultimo-numero/7-la-velocita-del-cavallo-e-quella-della-lumaca-teorie-e-pratiche-della-uebermarionette-in-gordon-craig.html; ultimo accesso: 24 giugno 2018).

[5] Action, Scene, and Voice: 21st-Century Dialogues with Edward Gordon Craig, a cura di J.A. BUCKLEY e A. HOLT, numero monografico di «Mime journal», volume 16, 2017.

[6] P. DEGLI ESPOSTI, La Über-Marionnette e le sue ombre. L’altro attore di Edward Gordon Craig, Bari, Edizioni di Pagina, 2018.

[7] I teatri di Craig, a cura di N. PASQUALICCHIO e M. CRISTINI, numero monografico di «Biblioteca Teatrale», n.s., n. 115-116, luglio-settembre 2015.

[8] L. MANGO, L’officina teorica di Edward Gordon Craig, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2015.

[9] F. RUFFINI, Craig, Grotowski, Artaud. Teatro in stato d’invenzione, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 5-67.

[10] O. TAXIDOU, The Dancer And the Übermarionette: Isadora Duncan and Edward Gordon Craig, in Action, Scene, and Voice: 21st-Century Dialogues with Edward Gordon Craig, cit., pp. 6-16.

[11] P. DEGLI ESPOSTI, La Über-Marionnette e le sue ombre. L’altro attore di Edward Gordon Craig, cit., pp. 89-111.

[12] L. MANGO, Edward Gordon Craig e la nascita del Moderno, in I teatri di Craig, cit., 43-58.

[13] Cfr. M. SCHINO, L’età dei maestri. Appia, Craig, Stanislavskij, Mejerchol’d, Copeau, Artaud e gli altri, Roma, Viella, 2017.

[14] G. ATTOLINI, Gordon Craig, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 3.

[15] F. SIMONCINI, “Rosmersholm” di Ibsen per Eleonora Duse, Pisa, ETS, 2005.

[16] Sul ruolo dell’iconografia nella rivista «The Mask» si veda R. GUARDENTI, Riviste teatrali e iconografia: note di metodo, tipologie, paradossi, in Comoedia e lo spettacolo italiano tra le due guerre. Atti del Convegno Nazionale di Studi (Chieti, 9 maggio 2013), a cura di Antonella Di Nallo, numero monografico della rivista «Studi Medievali e Moderni. Arte Letteratura Storia», a. XVII, 2/2013, pp. 71-107.

[17] N. PASQUALICCHIO, Edward Gordon Craig e Danilo Lebrecht: la riscoperta di un’amicizia attraverso le lettere, in I teatri di Craig, cit., pp. 103-129.


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di Renzo Guardenti


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