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Louis Jouvet. Artisan de la scène, penseur du théâtre

A cura di a cura di Ève Mascarau e Jean-Louis Besson con la collaborazione di Joël Huthwohl, Karine Le Bail, Jean-Loup Rivière et Marc Véron

Montpellier, Dernière époque, 2018, pp. 368, 27,00 euro
ISBN 978-2-37-769026-8

La pubblicazione rievoca, con doviziosa documentazione e acutezza di riflessione, la figura di Louis Jouvet (1887-1951) nei molti aspetti del suo lavoro teatrale quali la scenografia e l’illuminotecnica, la recitazione, la messa in scena,  l’insegnamento accademico. La riscoperta delle peculiarità dell’artista è facilitata dai suoi archivi, conservati presso la Bibliothèque Nationale de France e recentemente riordinati. Il volume, che si avvale della ricerca e dell’esperienza di specialisti, raccorda l’opera di Jouvet non soltanto con quella degli altri suoi sodali del Cartel des quatre (Pitoëff, Baty e Dullin), ma con l’evoluzione del teatro d’arte promossa da Jacques Copeau al Vieux-Colombier. I contributi qui raccolti, derivanti da un convegno del 2015, sono distribuiti in tre parti: Des origines à l’épreuve du plateau, Louis Jouvet metteur en scène e Louis Jouvet acteur et pédagogue, per un totale di ventuno saggi e undici interventi di testimoni contemporanei.

Una nota biografica di Marthe Herlin informa sull’insorgente vocazione teatrale di Louis studente, subito attratto dagli aspetti tecnici e pratici della scena. Marco Consolini affronta i rapporti di Jouvet con Copeau, dalla fondazione del Vieux-Colombier nel 1913 al 1922. La loro correspondance è decisiva per valutare i gradi e i ruoli d’una collaborazione che vede, in risposta all’insistente speculazione del maestro, la ricerca di risultati concreti nel più giovane neofita. Consolini evidenzia il «rapport déséquilibré» fra gli artisti, diversi per condizione e mentalità: «homme de lettres, un intellectuel», il primo; «homme de métier» (p. 32) il secondo. Scavando nelle differenze, dolorose e inevitabili perché sorte da dissonanze riconosciute, lo storico traccia due ritratti complementari dei protagonisti inseriti nel loro tempo. Istituisce parallelismi, per i quali Copeau è posto in relazione a Craig e Jouvet a Reinhardt. Nella prima coppia emerge la ricerca teorica mentre nella seconda è lo spettacolo compiuto a farsi meta d’impegno e di misura della personalità: «il n’y a pas, au théâtre, des problèmes, il n’y en a qu’un: c’est le problème du succès. La réussite est la seule loi de notre profession» (p. 40).

Sulla condizione paradossale stabilita alla nascita del Cartel interviene Marc Véron per rilevare nel contratto-programma fondativo (1927) carenze formali e legali, oltre che l’indeterminatezza degli scopi e dei mezzi per conseguirli. Restano aperte questioni riguardanti i diritti d’autore e le modalità di ingaggio degli attori. Fino al 1940, i direttori risentono delle vicende politiche che, con l’affermarsi del Fronte Popolare, determinano l’indirizzo culturale, dalla gestione della Comédie-Française alle ipotesi della décentralisation. Lo studio di Marcel Freydefont riguarda l’inclinazione alla scenografia da parte di Jouvet (abilissimo anche come disegnatore) in riferimento soprattutto all’opera di Niccolò Sabbatini Pratique pour fabriquer scènes et machines de théâtre (1637), della quale curò la pubblicazione (1942). Quel saggio introduttivo compendia bene la sua visione, nella quale si può riscontrare la formulazione d’una «physique théâtrale» (p. 66) che implica una dialettica fra tecnica esecutiva e teoria; mentre la disposizione naturale esalta una manualità intelligente e creativa.

In ambito affine s’addentra Sandrine Debouilh (Scénographie et mystère du théâtre), che segue gli scambi epistolari fra Jouvet e Gordon Craig attorno al progetto di traduzione degli scritti dall’inglese. Ancora debiti verso Craig coglie Alice Carré nel lavoro di ristrutturazione della scena del Vieux-Colombier nel 1920, traguardo della ricerca dello spazio modulabile, secondo quella concezione del «dispositif fixe» che, motivata dall’«envie de tout représenter dans un seul et même décor qui s’adapterait à loisir aux dramaturgies les plus diverses» (p. 85), approssimerebbe l’ideale di Copeau.

Un insolito contributo sulle tecnologie sonore apporta Jeanne Bovert nell’esame delle condizioni d’impiego del microfono e della registrazione su disco (musica e voci) in funzione drammaturgica. Intermezzo di Jean Giraudoux (1933) e La Machine infernale di Jean Cocteau (1934), entrambi allestiti alla Comédie des Champs-Elysées, sono i primi casi documentati a riguardo (grazie alla consultazione dei livres de conduite relativi), precedenti a quelli riscontrabili negli USA. Anche in L’École des femmes (1936) ricorre l’uso della musica di scena registrata. La memorabile interpretazione di Molière è analizzata dalla specialista Catherine Steinegger, che prendendo a campione la registrazione dell’edizione di Boston (1951) studia i parametri musicali e fonici dell’esecuzione in funzione della partitura per risalire al risultato estetico dello spettacolo. I criteri sono ispirati al Traité des objets musicaux (1966) di Pierre Schaeffer. Il contributo di Steinegger si chiude con considerazioni sull’impiego della musica da parte del Cartel.

Sulla rappresentazione di La Machine infernale si sofferma Gérard Lieber, per illustrare la concorrenza delle competenze di almeno tre responsabili dello spettacolo: lo stesso Jouvet, lo scenografo Christian Bérard e ancora Cocteau, autore prodigo di richieste e di suggerimenti sulla propria opera. Mileva Stupar analizza la consistenza e le possibilità di sfruttamento degli archivi (composti da oggetti provenienti da disparate collaborazioni e competenze) che Jouvet organizza con efficacia di catalogazione ai fini della conservazione e della comprensione della propria opera. I rapporti del regista francese con Vsevolod Mejerchol’d negli anni Trenta sono osservati criticamente da Béatrice Picon-Vallin sulla base della corrispondenza e degli articoli scritti da Jouvet in “difesa” dell’artista russo nonché delle sue ricerche protratte fino a che l’ostracismo verso Mejerchol’d portò alla chiusura del suo teatro.

La coppia formata dal regista con Jean Giradoux anima una collaborazione lunga e fedele che Guy Teissier mette in risalto e della quale cerca di spiegare la «mysterieuse complicité» (p. 214). Le interpretazioni di Dom Juan e di Tartuffe sono ricostruite da Jean-Louis Besson ribaltando i luoghi comuni sulla messa in scena di Molière all’epoca. Marc Véron (Les campagnes de Jouvet et de ses comédiens à travers le monde) motiva il successo del Théâtre Louis Jouvet nelle tournées in Europa e in America mediante il ricorso a dati organizzativi e finanziari.

Odette Aslan esamina il legame di Strehler con Jouvet mostrando i moventi e i sentimenti dell’artista italiano verso colui che, forse unico, stimò come “maestro” e che volle celebrare interpretando Elvire Jouvet 40, seguendo la regia del 1937, ma rinunciando alla propria firma creativa: «Strehler n’était que le metteur en scène-pedagogue qui dirigeait Giulia Lazzarini avec les mots de Jouvet» (p. 254). La testimonianza di François Regnault ricorda proprio Elvire Jouvet 40 ripresa da Strehler. Ravvicinare Jouvet a Antoine Vitez testimonia per Georges Banu la passione comune per la bellezza del testo e la necessità pedagogica del suo potere poetico e rappresentativo. «Metteurs en scène qui cultivent l’écrit et s’y livrent avec delectation […]. En son nom [du théatre] ils formulent des vœux théoriques et, surtout, se livrent à des versions scéniques» (p. 263).

Un insieme accorato di ricordi offre Jacques Lassalle, riandando a tante occasioni, da lui purtroppo mancate, di sperimentare l’arte di Jouvet; finché con l’allestimento di L’École des femmes (2001) riesce a superare reticenze e pregiudizi aprendosi a una piena ammirazione, confermata dalla partecipazione al presente convegno.

L’apprezzamento di Jouvet attore presso la stampa viene verificato dalla relazione di Marion Chénetier-Alev. La dimensione fisica e corporea della recitazione è centrale nello studio di Louis Dieuzayde, dedicato agli scritti di Le Comédien désincarné (p. 311). Jean-Loup Rivière riflette su come la memoria e l’inconscio vengano utilizzati da Jouvet, anche in rapporto all’estetica di Stanislavskij. Ève Mascarau fa il punto sul lavoro di Jouvet al Conservatoire, evidenziando i problemi della trascrizione e delle edizioni delle sue “lezioni” soggette ai limiti, spesso insormontabili, dell’oralità.


di Gianni Poli


La copertina

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