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Franco Perrelli

On Ibsen and Strindberg. The Reversed Telescope


Newcastle upon Tyne, Cambridge Scholars Publishing, 2019, 116 pp., £ 58.99
ISBN 978-1-5275-1853-7

Per cogliere le sensazioni degli spettatori affascinati dalla Duse è utile leggere quanto rilevato dal critico Lars Holst (p. 45) che sottolinea l’importanza pre-teatrale del cosiddetto tedium vitae: una caratteristica che aiuta a capire le azioni e il pensiero che muovevano la recitazione dell’attrice quando, indossando il personaggio di Hedda Gabler, mirava a suggestionare la mente e i sentimenti degli spettatori. Una nota, questa, che doveva del resto risuonare nelle vene di molte attrici del tempo. Con maggiore o minore destrezza un altro carattere scenico, che diventerà più tardi uno “strumento” di routine, dovette lasciare un segno forte all’altezza della Duse: «her voice could be high, clear and take flight, but a moment later it could assume a deep and hollow resonance of anguish and solemnity of weariness and suffering», mentre – accompagnato dai suoi «glancing eyes» – lo «strange, painful mildness of her lovely smile […] often arched her bitterly proud mouth» (p. 47). Così nell’interpretazione di Rebecca in Rosmersholm l’attrice appare come una «omnipresent goddes» velata da una misteriosa seduzione, che attrae potentemente (p. 49). 

Franco Perrelli fa spesso riferimento ai giudizi e alle recensioni della critica intorno al lavoro degli attori (non solo della Duse), ma giustamente storicizza queste “opinioni” sulla base dell’osservazione del contesto della Scandinavian audience. Utile, nella stessa direzione, appare il confronto tra il punto di vista, non solo drammaturgico, di Ibsen e quello di Strindberg, insieme alla messa in rilievo delle pesanti scaramucce del secondo nei confronti del primo, basate su una acuta “gelosia” drammaturgica; tanto acuta da spingerlo alla ridicola sentenza giustamente evidenziata da Perrelli: «What are Nora, Mrs Alving, Rebecca West? Irresponsible criminals» (p. 61). Questo e molto altro si può leggere nei primi cinque capitoli di questo volume. 

Dal capitolo sesto al nono (pp. 65-107) protagonista del racconto saggistico diventa August Strindberg. Lo scrittore è dapprima osservato attraverso i riflessi della sua opera nella ricezione italiana (Strindberg in the Italian Nineteenth-Century Theatrical Canon, pp. 65-76) nella quale viene ravvisata una moderata attenuazione delle punte polemiche e delle ossessioni psicologiche dello Swedish dramatist. Nel settimo capitolo Perrelli si occupa del rapporto dell’autore con la tragedia greca (Strindberg and Greek Tragedy, pp. 77-85) soffermandosi in particolare sulla ricaduta dei temi legislativi provenienti dalla drammaturgia antica nei contenuti moderni dello scrittore scandinavo. 

Dopo le pagine dedicate a August Strindberg and Georg Fuchs (pp. 87-96), nel capitolo seguente e ultimo (Ibsen in Anti-Ibsenian Theatre, pp. 97-107), l’autore del libro prende in considerazione anche i riflessi dell’accoglienza di Strindberg (che spesso a mio avviso fu superficiale e corriva) nel teatro italiano della fine del secolo scorso che, non sapendo dove sbattere la testa per vestire un abito nuovo, mise in repertorio, talvolta con esiti intelligenti, opere come Il padre, Danza di morte, La sonata dei fantasmi, Il pellicano, La signorina Giulia, Verso Damasco. Quali che fossero le intenzioni e gli esiti di chi mise in scena quelle e altre drammaturgie di Strindberg, sicuramente tali spettacoli determinarono effetti significativi nella trasformazione del gusto degli spettatori, nella tecnica della recitazione, nell’organizzazione degli spazi scenici. 



di Siro Ferrone


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