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Koffi Kwahulé

Les Africains/ Samo, Tribute to Basquiat


Montreuil, Éditions Théâtrales, 2019, 84 pp., euro 12,00
ISBN 978-2-84260-799-9

Il prolifico drammaturgo francofono Koffi Kwahulé (L'Odeur des arbres, 2017) propone alle stampe due nuove pièces: la prima inedita (Les Africains), la seconda rappresentata alla Comédie de Caen nel 2017 (Samo, Tribute to Basquiat). Entrambe, pure nei temi differenti, mostrano la continuità del linguaggio tipico e riconoscibile dell’autore d’origine ivoriana.

Les Africains rappresenta la ricerca dell’identità originaria da parte degli abitanti del Continente Nero, ormai “attori” della storia del mondo. Lo fa con registri linguistici e drammaturgici disparati, in generi diversi (commedia, documento, dramma lirico) e forme che vanno dal dialogo alla confessione in pubblico; dallo scambio fra genitori e figli all’annuncio pubblicitario. I dieci episodi alternano uno stile esuberante e frammentato in un andamento dalla musicalità jazzistica, rapsodica. La didascalia d’apertura indica l’inserimento – a tratti liberi e casuali – della canzone Sinnerman di Nina Simone. Finché una certa ridondanza di voci e d’immagini pervade le situazioni in forte contrasto dialettico.

Samo, Tribute to Basquiat potrebbe dirsi “poema drammatico”, frutto dell’identificazione, virtuosisticamente fittizia, dell’autore col pittore di strada, artista della contro-cultura USA degli anni Sessanta-Ottanta. Kwahulé trae ancora, dal suo mondo nativo, abili variazioni – secondo il ritmo jazz che informa ogni sua scrittura per la scena – attorno al distacco dalle origini sulla sensibilità reattiva alla società dei consumi, così aspramente e sarcasticamente criticata sin dai lavori iniziali: Il nous faut l'Amérique! (1997), Big-Shoot (2000) e Brasserie (2006). Quali costanti espressive s’incontrano l’intreccio delle battute, l’ambiguità dei ruoli affidati a personaggi senza nome e motti ricorrenti, sentenziosi o proverbiali. L’aspirazione confessata prevalente è la fuga verso l’“altra riva”, lontano dall’Africa, per tante persone tentate dal benessere e dal successo facili.

Sulla poltrona del parrucchiere, al centro commerciale, siedono donne pronte a condividere sogni e frustrazioni. Nelle chiacchiere, lo scandalo del ministro corrotto suscita meno curiosità che non la gravidanza imprevista della giovane Nolivé, al centro d’un nucleo famigliare esemplare. La ragazza è già modella in carriera legata a un ragazzo inviso ai genitori. A Roma, in piazza di Spagna, si gira lo spot nel quale con la sua esotica bellezza pubblicizza un prodotto.«Nolivé, tu ne cours pas, tu joggingues, c’est tout […]. Et tu es le produit et le produit est toi. Le produit ce sont tes seins et tes seins c’est le produit » (p. 12). Il tutto avviene mentre si accumulano suggestioni e allusioni dall’ambiente (spesso drammaticamente incompiute), quasi un riepilogo programmatico di tensioni pregnanti, in attesa d’essere incarnate da voci e personaggi più liberamente concreti e autonomi. Appaiono così l’immagine dell’acqua di un diluvio mitico o la minaccia di Maëva (sorella di Nolivé) di immolarsi per lei dandosi fuoco: accensioni metaforiche delle quali è difficile cogliere la necessità drammatica o estetica.

In due punti l’autore insinua il dubbio sulla dimensione teatrale della vicenda, mostrandola ulteriormente “finta”, parallela alla realtà sociale campita sullo sfondo. Molte le impressioni che richiedono discernimento, oltre l’emozione immediata, tanto da creare un senso di fatica all’immaginazione del lettore-spettatore. A una prima, semplice lettura, s’intuisce appena il senso d’un enigma sull’origine dell’uomo africano, ironicamente ipotizzato.

Per disegnare il profilo di Jean-Michel Basquiat, l’autore si nutre dei suoi dipinti e graffiti, degli slogan prodotti nella sua vita brevissima (1960-1988) di spaesato nel ghetto, di ostinato inseguitore della fama e di costruttore del proprio destino artistico: «C’est décidé / Je veux en ętre / Pour sortir la peinture du cadre / Je veux en ętre / Pour crier la peinture / Je veux en ętre. / Botter le cul au destin / […] Me présenter au destin par effraction» (p. 76).

Ma è lunga e ardua la via della conquista, poiché incontra l’incomprensione ostile del padre, oltre che le discriminazioni dei mercanti d’arte in cerca di nuovi talenti. Il disturbo mentale della madre, comunque sua guida alla scoperta della bellezza dell’arte, contribuisce all’abbandono della famiglia. A tappe esaltate e intense, l’artista porta a compimento il programma promesso al padre: «Sur ce mot tagué SAMO que / Je pose comme une fondation / S’érigera un royaume. / Oui pa’ je te le dis / Un jour je serai célèbre» (p. 60). La firma SAMO@ (acronimo di The Same Old Shit), scelta dall’artista in forma di logo, è creata alla metà degli anni Settanta, quando le performances originali di Basquiat comprendono danza hip-hop e scrittura figurativa.

La pièce propone alcuni passaggi in crescendo drammatico, quali la sequenza Tu es libre Jean, centrata sulla madre, e Now's The Time, che partendo da considerazioni sul significato di SAMO dà spazio a un “sogno” riferito dal padre (sotto forma di lettera), nel quale s’avvera la conversione dal rifiuto pregiudiziale del figlio all’accoglienza di lui e della sua vocazione. Il protagonista, che si conferma nelle ambite identità di “pittore” e di “americano”, risulta inabile però a eludere l’influenza nefasta della droga.

Grazie alla forza del suo linguaggio, Kwahulé si trasferisce poeticamente nel personaggio, attento alle potenzialità della messa in scena cui la sua opera è destinata. La figura e il gesto finali dell’anti-eroe ritraggono un combattente che si scopre danzatore, capace ormai di dominare pulsioni, espressioni e di puntare all’obiettivo di polemica rivalsa: «Danse esquive. / En souplesse SAMO. / Danse autour de l’ombre. / En souplesse SAMO. / Danse esquive l’ombre. […] Afin que s’ouvre la crysalide SAMO. /Now’s the Time» (p. 76).


di Gianni Poli


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