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Arthur Schnitzler

Paracelso

A cura di Paola Maria Filippi

Milano-Udine, Mimesis, 2018, 185 pp., euro 16,00
ISBN 978-88-5754-892-0

Paracelso di Arthur Schnitzler, opera drammaturgica composta a partire dal 1894 e completata nel 1898, debutta nel 1899 al Burgtheater di Vienna con la star Josef Kainz nel ruolo del protagonista. Tuttavia lo spettacolo convince poco pubblico e critica. Maggior successo ottiene l’interpretazione dell’attore italo-austriaco Alexander Moissi al Deutsches Volkstheater di Vienna (1922) e poi al Deutsches Theater di Berlino (1924). Questo impatto in chiaro-scuro sul palcoscenico si riscontra anche a livello storiografico. La posizione di Paracelso è adombrata da altri lavori teatrali di Schnitzler che hanno conosciuto maggiore fortuna scenica come Amoretto (1895), Anatol (1910), Professor Bernhardi (1913), Girotondo (1920).

Un’incisiva, meticolosa rivalutazione di questo atto unico in versi di ambientazione storica emerge dall’introduzione Alterius non sit qui suus esse potest (pp. 7-63) di Paola Maria Filippi alla commedia da lei stessa tradotta e pubblicata con testo originale a fronte. Al medico-drammaturgo Schnitzler, la figura dello svizzero Paracelso – stregone e alchimista, filosofo, mago e uomo di scienze del Rinascimento – permette di prendere «posizione nei confronti dell’ipnosi come strumento terapeutico», considerandola «nelle sue implicazioni di strumento conoscitivo dell’attività psichica e degli ambienti più nascosti della personalità» (p. 39).

Secondo l’interpretazione di Filippi il tessuto narrativo fa leva sull’incontro-scontro tra le diverse visioni morali e culturali che animano i vari personaggi. Le loro peculiarità sono, pertanto, sottoposte a utili, meticolose radiografie identitarie.

Il dottor Copus rappresenta i fondamenti della scienza antica di stampo ippocrateo; l’armaiolo Cyprian, padrone della casa in cui si consuma l’azione del dramma, incarna il borghese agiato e sicuro delle proprie scelte ma capace di evolvere nel corso della vicenda fino a diventare un sostenitore della medicina alternativa di Paracelso. Quest’ultimo, sorta di «medico contemporaneo in vesti rinascimentali» (p. 53), assurge a portatore della scienza nuova che esplora il corpo e soprattutto l’anima, perché è lì che si nascondono i desideri e i ricordi rimossi. Tuttavia in lui domina il dubbio. Quando lascia la casa di Cyprian, «si ritrova più umano di quanto vi è entrato, rivela un’intima fragilità percorsa dall’incertezza che avvolge gli stessi fenomeni dei quali si riteneva padrone» (p. 55).

Infine c’è Justina, la moglie di Cyprian che, diventata cavia dell’analista Paracelso, viene sottoposta a ipnosi. Gli effetti prodotti sulla coppia sono lo scardinamento delle certezze matrimoniali e la rivelazione di un segreto nascosto per quindici anni, ora esplicato con intenti liberatori dal tormento di un’ossessione: l’amore nutrito in gioventù dalla donna per Paracelso. Tuttavia non succederà nulla. La sua vita continuerà tra le solite, solide pareti domestiche e probabilmente in modo ancor più frustrante di prima.

In questo apparente lieto fine – conclude Filippi – «si evidenzia lo scetticismo sulla possibilità di costruire qualcosa di duraturo e di valido […] nel mondo degli affetti» (p. 63). Ritorna anche in Paracelso il tema della solitudine ricorrente nel teatro dello scrittore viennese, qui rivisitato nella sua dimensione forse più dolorosa e inquietante: la convivenza con il silenzio tombale di quel magma interiore in cui si annidano pericolosi e potenti spettri.


di Massimo Bertoldi


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