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Patrice Chéreau

Journal de travail. Années de jeunesse. Tome I, 1963-1968

A cura di Julien Centrès

Arles, Actes Sud-Papiers, 2018, pp. 275, euro 25,00
ISBN 978-2-330-08410-3

Presso l’Institut Mémoire de l’édition contemporaine (Abbaye d’Ardenne, Caen) sono depositati dal 1996 gli scritti di Patrice Chéreau (1944-2015), nonché la documentazione della sua carriera. Ho così viva la memoria di una visita a quel luogo da raccomandarne la frequentazione a quanti siano interessati a goderne i servizi forniti per la consultazione e lo studio.   
 
Esce ora il primo volume del Journal, che presenta in selezione materiali relativi a sei anni di lavoro preparatori alla messa in scena di otto spettacoli, dall’Intervention di Victor Hugo a Dom Juan di Molière. Dagli esordi amatoriali presso il parigino Liceo Louis Le Grand fino alla direzione del Théâtre di Sartrouville scorrono appunti, riflessioni e disegni autografi esito di un laboratorio fervido e molto promettente. A quell’avventura partecipa il compagno Jean-Pierre Vincent con la collaborazione di nomi celebri. L’originalità eclettica delle prime ricerche fissate sulla carta mostrano di Chéreau la personalità prorompente, decisa e organizzata del leader, nel gruppo che si farà subito apprezzare con l’invito a Festival internazionali.   
 
Emerge così anche l’inclinazione a definire, con la scenografia, il quadro spaziale frutto di una  analisi critica in cui la storia dell’ambiente si confronta con la musica e l’arte figurativa dell’epoca. Con l’adattamento del testo di L’Intervention, il bisogno di «trafiquer le texte» (p. 34) diventerà costante operativa. Il giovane Patrice dimostra conoscenze storiche e usa strutture teoriche a sostegno di scelte rappresentative, nelle quali si fondono gusto estetico e giudizio, basate su letture precoci e pertinenti. Chéreau fa proprie le acquisizioni della semiologia, nutrendosi dei saggi di Roland Barthes per distinguere e trattare gli elementi dello spettacolo secondo funzioni linguistiche. Le impressioni più potenti vengono allora al regista dalla lezione brechtiana e gli effetti si riscontrano nella recitazione, sul costume e sulla musica, nonché sull’urbanistica e sull’economia. Si articola ancor meglio il discorso attorno a Fuente Ovejuna di Lope de Vega, nell’esame delle strutture sociali che condizionano i rapporti fra i personaggi e sono motivo dei loro conflitti. La recitazione è un problema centrale che sarà affrontato negli anni Ottanta con la Scuola gestita a Nanterre. L’arte ideale prevede un «théâtre réaliste fondé sur la responsabilité des formes plutôt que des contenus» (p. 92). Gli scopi comunicativi prevedono mezzi espressivi insoliti, anacronistici rispetto ai codici vigenti, nei quali il trucco contribuisce all’accentuazione grottesca dei personaggi.    
L’Héritier de village di Marivaux viene scelto per sottolineare «une enorme cruauté» (p. 99) in una vicenda ambientata poco prima della Rivoluzione. Pure pressato da scadenze stringenti, il regista s’impegna in soluzioni precise e raffinate riguardanti la musica e le azioni rituali quali il servizio del tè: «Les orchestrer d’une façon très moderne. […] Faire varier la musique d’un air de cour à un chant révolutionnaire» (p. 99). I movimenti sono regolati nei particolari esecutivi e s’ispirano a Otto e mezzo di Fellini. Insistiti i rilievi sull’ideologia per mostrare che «la pièce, après une tentative pour imposer aux exploités le modèle de vie des exploitants, ne fait qu’aggraver les antagonismes de classe à la fin» (p. 111). Chéreau passa da uno spettacolo al successivo con straordinaria continuità creativa. Chiuso a marzo 1965 L’Héritier, a maggio inizia L’affaire de la rue de Lourcine di Labiche, immaginato come «opérette-comédie musicale à la fois vue positivement et critique» (p. 114). Il regista intende schematizzarlo quale esempio del crollo della buona coscienza borghese. Poi mette a frutto l’esperienza scenografica di Fuente Ovejuna e di L’Héritier per valorizzare le esigenze che sente più attuali: «Donner un agencement géographique de l’espace […] l’éclatement de la scène moderne n’est pas gratuit» (p. 114). Nella sua vitalità giovanile mira a superare le categorie di forma e contenuto, per «un esemble de fonctions données (esthétiques) qui fondent un contenu, mieux: un sens. Le type de théâtre à réaliser est interrogatif et demontratif» (p. 115). E dell’opera di Labiche prova a restituire una “storia” di cui L’affaire possa farsi riassunto emblematico: «Faire d’une pièce une totalité» (p. 136). Il testo gli pare una sequenza di fantasmi e gli offre nella maison close un’analogia con La maison Tellier di Guy de Maupassant dove il “ragionare” è prevalente rispetto all’attività sessuale.  
 
Della critica, a partire da quella di Bernard Dort, accoglie i suggerimenti dopo il successo della rappresentazione ospitata a Gennevilliers da Bernard Sobel nel marzo 1966. Ne analizza le reazioni, le giustifica o le contesta sostenendo le proprie scelte più audaci quali «le burlesque du cruel et la comédie musicale» (p. 158).   
 
A motivazione di Les Soldats di Lenz, l’autore rileva: «Les Soldats coïncident précisément avec la description d’un théâtre matérialiste (décrit) par Althusser» (p. 163). Nella prima ricerca sul testo (maggio 1966) emerge il ruolo della protagonista, Marion, illusa di scegliere il suo destino ma totalmente soggetta agli eventi. Chéreau avverte per gli attori le difficoltà di interpretare personaggi al limite della mistificazione. Alla scenografia affida il compito di mostrare il senso grandioso del viaggio, assieme alla musica e all’interpretazione. Lo spettacolo fu rappresentato in tournée alla Rassegna fiorentina dei Teatri Stabili del 1968.   
 
A settembre 1967 inizia la preparazione di Pièces chinoises di Kuan Han Ching che a novembre sarà la sua “prima” da direttore a Sartrouville. Lo spettacolo, inteso come parabola della condizione della donna, dovrà mostrare la «cohérence d’un système voyant et agressif […] la violence des contraintes et la clarté des différences, designer par le geste la cruauté sociale» (p. 190). Mentre già l’attenzione è rivolta a Dom Juan, viene affrontato anche il testo del greco Dimitri Dimitriádìs, Le Prix de la révolte au marché noir. Per Chéreau, l’autore ha confuso rivoluzione e spettacolo e posto un problema dibattuto dagli intellettuali che si dicono rivoluzionari e scelgono Shakespeare per denunciare la violenza ma non sanno con che mezzi affrontarla. Le brevi annotazioni mostrano la dialettica fra le diverse ipotesi estetiche. La scelta musicale va ad Alcina di Händel per la facoltà di orientare sentimenti e pensiero e spiegare la reazione degli intellettuali ai moti del Maggio. Durante la preparazione di Dom Juan, Chéreau raduna il gruppo dei collaboratori più fedeli: Richard Peduzzi (scenografo), André Diot (datore luci), Jacques Schmidt (costumista); e nell’analisi della drammaturgia di Molière parte dagli studi di Althusser, Bénichou, Goldmann, Dort guardando agli spettacoli di Roger Planchon. «Une conscience révolutionnaire dont la morale bouleverse le monde, presse la décadence et propose aux hommes l’image du privilège aristocratique: la liberté dans le désir» (p. 221), ipotizza l’artista. Quale strumento scenico adotta allora la machinerie (poi machine-à-jouer), congegno con cui venivano fatti sparire i libertins.      
 
Le informazioni inedite di questo volume inducono a ripensare il percorso estetico del regista. L’enorme sforzo di selezione e di sintesi attraverso una riflessione teorica nutrita di filosofia, storia ed economia vi appare più chiaro. Accanto al talento naturale emerge una curiosità culturale inesauribile. Ariane Mnouchkine sente affine Chéreau per la tensione della ricerca e lo ricorda poeticamente nella Prefazione. Gli riconosce un’evoluzione nell’avvicinarsi alla déesse che infine si era scelto: la “bellezza”. Pablo Cisneros, ultimo amico intimo, nella Postfazione legge queste note come un approccio ermeneutico e dialettico: «un silence ouvert, un dialogue entre Patrice et sa libre pensée» (p. 250). 

di Gianni Poli


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