Domenico Giuseppe Lipani
Devota Magnificenza. Lo spettacolo sacro a Ferrara nel XV secolo (1428-1505)
Roma, Bulzoni, 2017, 382 pp., euro 25, 00
ISBN 978-88-6897-091-8
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Relegato
ai margini dagli studiosi positivisti di fine Ottocento e dagli storici di
inizio Novecento (più attratti in unottica evoluzionistica dalla novità delle
prime rappresentazioni volgari dei classici comici plautini e terenziani), lo
spettacolo sacro ferrarese del XV secolo è stato indagato nella sua specifica
particolarità a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, in coincidenza
con la “rivoluzione copernicana” dettata dalla “nuova storia” del teatro. Tuttavia
si è trattato per lo più di contributi inseriti nellambito di più ampie
trattazioni dedicate alla ricostruzione del contesto produttivo della corte
estense o dello spazio del teatro a Ferrara.
Il
corposo saggio di Domenico Giuseppe
Lipani, primo contributo monografico sullargomento, colma in larga misura
questa lacuna. Lanalisi prende le mosse dalle fondamentali acquisizioni, anzitutto
di natura metodologica, di Ludovico Zorzi ( Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino,
Einaudi, 1977) che incrociando fonti cronachistiche, iconografiche e
architettoniche ha delineato un primo quadro dinsieme della civiltà teatrale
nella Ferrara estense. Basilari anche gli studi di Fabrizio Cruciani, Clelia Faletti e Franco Ruffini ( La sperimentazione a Ferrara negli anni di
Ercole I e Ludovico Ariosto, in «Teatro e Storia» IX, 1994, pp. 131-215), i
quali hanno esaminato le principali tipologie sceniche ferraresi in rapporto
alla cultura della rappresentazione che le ha prodotte, concentrandosi
soprattutto sulla dialettica progettualità-realizzazione materiale. La
lezione di Zorzi è interiorizzata a vari livelli. Prima di tutto nellampio
lavoro di scavo documentario a sostegno dellimpalcatura del volume, che nel
“ritorno alle carte” riconosce uno dei suoi intenti primari: «Riordinare i
documenti, anche noti (e forse più noti che conosciuti), è il punto di partenza
di ogni ricerca, ma credo possa essere anche il punto di arrivo» (p. 50). La
centralità delle fonti, cuore pulsante della ricerca (si pensi alla scuola fiorentina),
trova riscontro nelle utili appendici inserite alla fine di ogni capitolo che registrano
i documenti più significativi presi in esame. La centralità documentaria è tempestivamente
dichiarata nellintroduzione dedicata alla contestualizzazione delle molteplici
tipologie di fonti oggetto di studio e alla messa a fuoco dello specifico punto
di vista di cui sono portatrici.
Da
Cruciani, Lipani mutua la categoria di spazio antropologico del teatro: luogo
ideale in cui gli uomini coinvolti nel mondo dello spettacolo si scambiano idee
e saperi lavorando fianco a fianco. La definizione di questo spazio ha un ruolo
chiave nellindagine, ma non ne costituisce il cardine.
Langolatura principale dalla quale si inquadra lo spettacolo sacro ferrarese è ideologica. La sfida più importante con cui il libro si
confronta è quella di provare a restituire, insinuandosi tra le crepe del
discorso spettacolare di corte (di cui le fonti sono quasi sempre diretta
espressione), stralci di alterità linguistica, dove per “lingua” è da
intendersi («marxianamente», come ama precisare lautore) «lespressione del
pensiero» (p. 20). La struttura del lavoro risponde direttamente a questo
proposito: quattro capitoli dedicati ad altrettanti linguaggi, in cui si
privilegia un approccio trasversale diacronico che dà conto dellaffinità
culturale di fatti di spettacolo anche lontani nel tempo.
Il
primo capitolo si occupa della lingua “litteraria” che attecchisce a Ferrara nella
prima metà del XV secolo con il magistero di Guarino Veronese, intellettuale di punta dellumanesimo maturo nonché
precettore di Lionello dEste. La salita al potere di questultimo segna il
momento in cui linnovativo modello pedagogico umanista guariniano viene
legittimato dal potere centrale e diventa instrumentum
regni. La lingua letteraria, basata sulla sublimazione del presente
attraverso una sua proiezione nel passato mitico, diventa così ufficialmente il
registro espressivo dell élite culturale
e in primis dello stesso Lionello, princeps letterato che quella lingua padroneggia
alla perfezione. Si osserva però che non tutti nella corte posseggono gli
strumenti anche solo per comprenderla, come dimostra un puntuale confronto tra
le fonti di ambiente intellettuale-cortigiano sulla mascherata mitologica del
1433: uno sfarzoso corteo di divinità pagane organizzato dallumanista
siciliano Giovanni Marrasio. Solo la
testimonianza di Guarino Veronese sembra cogliere il valore “teatrale” (in
senso umanistico-classicheggiante) dellevento.
Se
autoreferenzialità ed elitarismo connotano il linguaggio dellumanesimo a
Ferrara, al contrario la “lingua religiosa”, oggetto del secondo capitolo, ha
nella molteplicità di “parlanti” e contesti di fruizione il tratto fondante. Da
un lato è presente una religione “alta”, contigua al discorso del potere e
vicina allavanguardia culturale della corte, che in quegli anni si esprime in
modo maturo nella fondamentale esperienza del concilio di Ferrara (1438). Dallaltro
è viva e operante una religiosità “bassa”, più vicina al vissuto delle classi
subalterne, rintracciabile nelle pubbliche predicazioni, nelle pratiche spettacolari
delle confraternite francescane, nelle processioni e nei rituali della città. Il
percorso proposto in queste pagine mira non tanto a documentare e a descrivere singoli
contesti ed eventi; quanto, piuttosto, a sondare limmaginario culturale che è
alla base di qualsiasi forma produttiva collegata al contesto sacro (si veda il
repertorio iconografico in appendice).
Dopo
una parentesi dedicata alla “lingua cortese” (capitolo terzo), in cui si
sottolinea la presenza costante delle tradizioni cavalleresche a Ferrara durante
la signoria degli Este (specialmente sotto Borso), lattenzione si sposta sul
teatro religioso di Ercole I (quarto capitolo). Alla luce dei risultati della
puntuale analisi dei due grandi cicli di Passioni
riconducibili alla committenza del duca (1481, 1489), Lipani ridiscute il noto concetto
di “circolarità” delle forme spettacolari allepoca di Ercole. Lipotesi dello
studioso, sostenuta da corpose evidenze documentarie, è che la ricorrenza degli
stessi elementi, anche se con funzioni diverse, sulle scene delle diverse
tipologie di spettacolo inizi già molto prima di Ercole I. La disamina dei
registri di pagamento della corte estense dimostra che i vari professionisti e gli
artigiani, primi fra tutti i fiorentini Antonio
di Cristoforo e Niccolò Baroncelli,
lavoravano indifferentemente a ingegni e scenografie per spettacoli di matrice
cortese, umanista o religiosa, di corte e non, già nei primi decenni del secolo.
Con lascesa al soglio ducale di Ercole, tale processo si intensifica in virtù
dellaffermazione di un progetto ideologico di teatro centralizzante.
Il
saggio si chiude con alcune considerazioni sulle rappresentazioni sacre del
1503, per la prima volta slegate dal calendario liturgico e, in almeno un caso,
rivolte alla sola corte: chiaro segno, secondo lo studioso, del passaggio da una
“molteplicità” alla “unità”. Il
volume coltiva una prospettiva “emica” prossima alle categorie della cultura così
come emergono dalle fonti. Si può non essere daccordo su alcuni punti problematici
(uno per tutti, il riferimento allallegoria come «struttura del pensiero
medievale», p. 138), ma sono da apprezzare lampio respiro culturale e il
rigore del metodo induttivo di cui si giova questa ricerca originale che nella consapevolezza dei suoi strumenti e della parzialità del proprio
punto di vista ha il suo maggiore punto di forza: «Ogni opzione interpretativa
apre visioni nuove e inesorabilmente ne chiude altre: ciò non può essere un
limite se si acquisisce la consapevolezza della non definitività delle proprie
domande e della non esaustività delle conseguenti risposte» (p. 49). Un reference book.
di Marcello Bellia
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