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Revue d’Histoire du Théâtre, 2017, n. 274
Le Jeu de l’acteur de mélodrame. Origines, pratiques et devenirs

160 pp., 15 euro

Il mélodrame, come è noto, è un genere del teatro francese ottocentesco con carattere patetico e popolare sviluppatosi nei teatri parigini del Boulevard du Crime (soprannome del boulevard du Temple), in particolare presso il Théâtre de la Gâité. Una forma spettacolare caratterizzata dall’accompagnamento musicale, basata su schemi drammaturgici fissi e personaggi manichei, nonché su tecniche di improvvisazione attoriale.

Il dossier è diviso in quattro sezioni. Nella prima (pp. 9-30) si ripercorrono le tappe storiche di questa forma teatrale a partire dalla pantomima. Nella seconda (pp. 31-64) se ne evidenziano caratteristiche novità: il gusto per la violenza, la contiguità con lo stile recitativo “all’inglese”, le innovazioni di Frédérick Lemaître. La terza (pp. 65-100) ospita una serie di ritratti dei principali attori di mélodrame. L’ultima parte registra una riflessione sulla fortuna del genere: nel teatro popolare di Firmin Gémier, nel cinema muto e nel metodo didattico di Jacques Lecoq (pp. 101-131).

Nell’introduzione, Roxanne Martin sottolinea la difficoltà di studiare un teatro in cui l’aspetto scenico e recitativo prevale su quello letterario. Nel mélodrame dominano una gestualità enfatizzata, il patetismo, la volontà di suscitare forti emozioni attraverso un linguaggio più fisico che verbale. Le tecniche attoriali sono in primo piano: «le mélodrame a pu exister parce qu’il y avait des comédiens éxtraordinaires» (p. 8).

Sylviane Robardet-Eppstein individua nella pantomima gli antecedenti del mélodrame. A livello testuale, l’uso di didascalie abbondanti e di accurate descrizioni della gestica testimoniano l’interazione tra parole, musica ed espressione fisica.

Emmanuelle Delattre-Destemberg esamina la circolazione di danzatori tra i teatri principali dedicati agli spettacoli pantomimici e il circuito secondario del mélodrame. Da un lato si seguono le vicende di Virginie Hullin e di M.lle Legros, di cui la critica del tempo apprezzò la versatilità; dall’altro si ripercorre la carriera di Zalie Molard, apprezzata interprete di pantomima che tentò, con scarso successo, la carriera di attrice di prosa.

Noémi Carrique analizza tre personaggi “sanguinari”: il Georges de Gérmany di Trente ans, ou la vie d’un joueur di Victor Ducange; l’Antony dell’omonima opera di Alexandre Dumas père; e l’Oscar di Le Brigand et le philosophe di Félix Pyat e Auguste Luchet. Si tratta di violenti assassini, la cui “disumanità” è però complessa, venata di energia contestatrice, a tratti quasi eroica.

Catherine Treillhou-Balaudé si sofferma sulla diffusione dei testi di Shakespeare e sulla presenza a Parigi di compagnie inglesi durante la Restaurazione, esaminando le contaminazioni tra mélodrame e tematiche e pratiche attoriali britanniche. I temi shakespeariani (follia, gelosia, brama di potere) e il realismo con cui tale materia viene portata in scena stupiscono e turbano il pubblico, là dove i critici parlano di intensità espressiva, vocalità estesa, energia nuova. Gli adattamenti dei testi di Shakespeare in forma di pantomima e di mélodrame mettono alla prova gli attori francesi con ruoli per loro inediti.

Marion Lemaire parla del padre del mélodrame: il celebre Lemaître. I contemporanei gli riconoscono la capacità di trasmettere emozioni attraverso l’espressione non verbale, la capacità di immedesimarsi in ogni personaggio, la vocalità originale e potente, oltre all’efficace realismo  recitativo “all’inglese”.

Seguono alcuni ritratti dei protagonisti del mélodrame. Julia Gros e Florence Filippi si occupano di Marie Dorval (1798-1849), a lungo pensionnaire alla Comédie Française di cui, nonostante i successi, non fu mai nominata sociétaire. Di  costei si sono perse in buona parte le tracce.

Il secondo ritratto, a firma di Olivier Goetz, è dedicato a Etienne Mélingue (1808-1875). Approdato a Parigi negli anni ’30, dopo un lungo periodo di insuccessi, raggiunge l’exploit della sua carriera tra il ’47 e il ’50 al Théâtre Historique fondato da Dumas. Energico, elegante, attento agli abiti di scena, con un bel portamento e una voce enfatica. Tuttavia la mascella prominente penalizzava la dizione.

Un terzo ritratto, a cura di Marion Chénetier Alev, è quello di Philibert Rouvière (1809-1865). La sua carriera è ben documentata: interprete shakespeariano quando il pubblico «commençait a être las de passion, de lyrisme et de poésie» (p. 89), donava ai suoi personaggi una espressività fisica quasi eccessiva nella ricerca dei tratti della follia. Pittore, amante della poesia, attento studioso dei testi che doveva interpretare, era considerato l’attore delle élites. Il grande pubblico lo trovava ostico.

Chiude il dossier un approfondimento sull’eredità del mélodrame. Nathalie Coutelet ricostruisce l’attività di Gémier (1869-1933), attore e poi direttore di compagnia. In questo interprete emozione e sensibilità si abbinano alla naturalezza. Jean-Marc Leveratto spiega come l’eredità del codice espressivo del mélodrame sia rintracciabile nel cinema muto, in cui gli attori tendono a esagerare pose e gesti per comunicare senza la parola. Didier Doumergue individua tracce del mélodrame nel metodo di insegnamento di Lecoq.


di Chiara Benedettini


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