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Gianluca Stefani

Sebastiano Ricci impresario d’opera a Venezia nel primo Settecento


Firenze, Firenze University Press, 2015, 317 pp., euro 14,90, Premio Ricerca “Città di Firenze” 46
ISBN 978-88-6655-960-3

Sulla figura di Sebastiano Ricci i biografi sono concordi: la sua fu una vita vissuta “alla grande”. Artista instancabile, acuto e frenetico, Ricci era pittore, disegnatore, caricaturista, mercante di opere d’arte e restauratore; uomo del suo tempo, un personaggio contraddittorio – al servizio di chiese e confraternite e al contempo inguaribile seduttore e “maneggione” – ma in ogni caso convinto e responsabile delle proprie ambizioni professionali. Appassionato di teatro musicale, musicista anch’egli, scenografo in almeno due occasioni, Ricci fu, finalement, impresario d’opera ed è a quest’ultima veste che Gianluca Stefani dedica il suo lavoro Sebastiano Ricci impresario d’opera a Venezia nel primo Settecento.

Uno studio, quello di Stefani, che presenta il frutto di lunghe e accurate ricerche archivistiche e bibliografiche. Non solo l’autore ripercorre e in parte riscrive la carriera di Ricci, dando la giusta considerazione all’impegno come impresario – sinora considerato alla stregua di uno sfizio, la passione per la musica di chi fu e restò innanzi tutto pittore – ma getta una nuova luce sulla società veneziana, sulle sue stagioni operistiche e sulla gestione delle sale teatrali nei primi trent’anni del secolo.

Nel capitolo iniziale Stefani tira le fila delle indagini condotte dalla critica riccesca, ricostruendo soprattutto la sua attività di pittore, beneficiante di committenze autorevoli che gli fruttarono incarichi prestigiosi e remunerativi sia in Italia che all’estero. Un paragrafo assai divertente è riservato agli episodi che lo videro protagonista di avventure amorose in cui egli sembra sempre gettarsi a capo fitto rischiando persino, in un’occasione, di vedersela tagliare quella testa, a seguito di una condanna alla decapitazione (p. 23).

Il secondo capitolo spiega il suo avvicinamento al teatro e alla scenografia, debitore principalmente della protezione farnese e di una fitta rete di conoscenze aperta su Roma. Una volta inserito nell’entourage del duca di Parma, assimilato l’insegnamento del maestro Ferdinando Bibiena, Ricci si calò appunto nella cerchia romana dove imparò ben altra lezione dall’amico Giuseppe Calvi, professione impresario, il quale secondo gli indizi raccolti da Stefani, gli affidò nel 1694 l’allestimento del Roderico di Francesco Gasparini e dell’Orfeo di Aureli e Sabadini. Tra Venezia e Firenze, titolo del terzo capitolo, Ricci consolidò la sua carriera di pittore, rafforzò l’affetto riservato al nipote prediletto, Marco Ricci, e si ritrovò dedicatario di una satira musicale di Osvaldo Funese.

Senza dubbio però è col quarto capitolo che lo studio di Stefani entra nel vivo, affrontando la stagione veneziana 1705-1706, la prima che Ricci visse da impresario. Le ricerche dell’autore contribuiscono a ridefinire l’immagine del Sant’Angelo, sfatando i pregiudizi che si sono accumulati su di esso, idee che lo vorrebbero teatro “secondario”, affidato alla gestione di impresari “stagionali” sulle cui decisioni i “compatroni” (i tanti proprietari della sala) non intervennero. La documentazione raccolta da Stefani, in gran parte inedita, dimostra invece come il teatro, estremamente competitivo grazie ad una proposta musicale a buon mercato e pur rischiando di fallire sotto il peso di insuccessi e scandali, fosse una fucina di sperimentazione, un trampolino di lancio per nuovi cantanti e un esempio di cooperazione tra proprietari ed impresari i cui interessi economici coincidevano. Con lo stesso acume critico lo studioso affronta l’analisi del mestiere di impresario e anche in questo caso lo fa a partire dai luoghi comuni che lo disegnano come un «povero cristo affogato dai debiti, vittima del nevrotico ambiente teatrale che si illude di poter gestire» (p. 117), un po’ come appare Ricci nella successiva caricatura ad opera di Anton Maria Zanetti che Stefani elegge a copertina del volume.

Per l’autore è comunque chiaro come il pittore, in quanto tale, sia stato sempre o un sostituto o un coimpresario. Ricci entrò in gioco o per risollevare stagioni partite male (come nel caso dello stesso anno comico 1705-1706) o da semplice procuratore finì per prendere il posto del “titolare”. Accadde così nel 1717-1718, come si legge nel quinto capitolo, in occasione del suo ritorno al Sant’Angelo. Stefani ricava molte delle notizie sulla conduzione dell’impresa da una serie di documenti inediti riguardanti controversie giudiziarie che vedono Ricci scontrarsi con l’altro impresario, Giovanni Orsatto e la stessa analisi delle carte fornisce informazioni, prima sconosciute, relativamente a cast, contratti ed emolumenti. Anche sui periodi della parabola riccesca che decide di non trattare, l’autore non rinuncia a precisare alcuni aspetti degni di nota. Si veda l’accenno al soggiorno londinese del 1712.

L’ultimo capitolo è dedicato al fallimento dell’anno teatrale 1728-1729. Il rischio corso per finanziare la stagione del San Cassiano fu condiviso da Ricci con la cantante Faustina Bordoni, ma a nulla servì questa coimpresa, che aveva puntato sulla scrittura di un agguerrito gruppo di talenti canori, a fronte del successo di Farinelli, il castrato più celebre all’epoca, accolto trionfalmente in città e al San Giovanni Grisostomo.

Completa il volume la ricca appendice dei documenti e delle illustrazioni a conferma di un lavoro di prima mano grazie al quale «l’identikit» del professionista appare sempre più definito e invita lo studioso a proseguire, in virtù degli ottimi risultati, la ricerca sul quondam «Bastian Rizzi».


di Caterina Nencetti


La copertina

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