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Gasparo Gozzi e la sua famiglia (1713-1786)
Atti del convegno (Venezia, 13-14 novembre 2014)
A cura di Manlio Pastore Stocchi e Gilberto Pizzamiglio

Venezia, Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2015, 2 tomi, pp. 324 + 48, euro 33,00
ISBN 978-88-95996-530

Legati alle celebrazioni del terzo centenario della nascita di Gasparo Gozzi, gli atti del (ritardatario) convegno rendono un tributo all’anima inquieta del letterato, traduttore, giornalista e politico veneziano.

Giuseppe Gullino ripercorre alcuni punti salienti dell’infelice esistenza di Gasparo: dall’adolescenza nella villa di Visinale all’incontro con la prima moglie Luisa Bergalli; dall’impegno politico a quello giornalistico; fino al volontario esilio da Venezia e al tentativo di suicidio a Padova.

Cesare De Michelis analizza lo sguardo disincantato del Novecento sull’ultimo secolo della Serenissima, attraverso tre opere che hanno eletto i Gozzi a emblematici protagonisti di quell’epoca carica di contraddizioni: la commedia in quattro atti Carlo Gozzi (1903) di Renato Simoni, il romanzo di Alfredo Panzini La sventurata Irminda! Libro per pochi e per molti (1932) e La commediante veneziana (1935) di Raffaele Calzini. Cristina Cappelletti affronta la polemica letteraria tra Pietro Chiari e Gasparo e Carlo Gozzi. La studiosa ripercorre la lunga serie di scritti tramite i quali si fronteggiano l’abate e lo schieramento composto dai fratelli Gozzi e dall’accademia dei Granelleschi. In particolare vengono messe sotto una lente le accuse di questi ultimi alla poesia plagiaria e tediosa di Chiari che si moltiplicano dai primi anni Cinquanta del secolo fino a dopo la partenza dello scrittore bresciano da Venezia.

Il più articolato saggio di Giandomenico Romanelli si sofferma sul Gasparo Gozzi critico d’arte sulle pagine della «Gazzetta veneta» e dell’«Osservatore». Sfogliando le recensioni e i commenti del conte, lo studioso evidenzia i poli del suo discorso estetico: la “grandezza” di Tiepoletto e la “grazia” di Pietro Longhi. Di quest’ultimo, in particolare, Gozzi individua e condivide lo sguardo tagliente celato da un “disegno” dai tratti gentili e misurati (e si pensi a Carlo Goldoni). Questa «metaforizzazione pittorica» della vita (p. 44) è la traccia in cui si muove il pensiero filosofico di Gasparo che si allinea non per caso a una «non meno efficace, speculare e simmetrica metaforizzazione: quella teatrale» (p. 63).

Piero del Negro indaga gli anni trascorsi dal conte Gozzi come soprintendente alle stampe alle dipendenze dei Riformatori dello Studio di Padova. In particolare si considera il suo contributo alla preparazione della scrittura sull’educazione della «Veneta Gioventù» (1770-1771). Scrittura condivisa con Giambattista Bilesimo e Natale Dalle Laste e voluta in primis da Andrea Tron. L’ipotesi di riforma concepita dai tre eruditi, ridimensionata in fase di approvazione, prevedeva l’istituzione di un collegio laico che avrebbe dovuto garantire l’educazione e la corretta preparazione dei giovani nobili veneti all’Università: una pianificazione della didattica collegiale e universitaria, ottenuta tramite la regolamentazione dell’accesso allo Studio, l’estensione del periodo accademico, l’introduzione di libri di testo; una riformulazione del sistema dei finanziamenti in cui avrebbe  dovuto avere un ruolo fondamentale l’istituzione di una stamperia universitaria. Lo studioso propone una acuta individuazione della parte avuta da Bilesimo, Dalle Laste e Gozzi nella preparazione del testo, riconoscendo al conte grande lungimiranza nella concezione del collegio statale. Istituzione peraltro mai realizzata dai Riformatori e che trovò un parallelo alla fine degli anni Settanta nel Seminario vescovile patavino, riscuotendo il successo internazionale che Gasparo aveva previsto.

Manlio Pastore Stocchi porta all’attenzione degli studiosi il poema gozziano in quattro canti intitolato Del vetro (1775): liberissima traduzione del latino De arte vitraria (1732) del gesuita francese Pierre Brumoy e punto d’arrivo del processo di riduzione a pura letteratura del trattato tecnico sull’Arte vetraria (1612) del fiorentino Antonio Neri. Nel suo saggio dedicato alla Famiglia Gozzi all’opera, Anna Laura Bellina snocciola le imprese letterarie dei fratelli Gozzi e di Luisa Bergalli per il teatro musicale, quasi sempre, e a ragione, poco fortunate. In un magma di imprese tentate spesso senza adeguata cognizione si distingue tuttavia l’edizione dei libretti di Apostolo Zeno, curata da Gasparo e pubblicata dall’editore Giambattista Pasquali nel 1744. Gilberto Pizzamiglio prende in esame i fortunati Sermoni gozziani evidenziandone le intenzioni etiche, moralizzanti e di satira del vizio. Comparsi dapprima nei diversi tomi delle Lettere diverse, raccolti in numero di dodici in un unico volume nel 1763 e infine arricchiti sulle pagine dell’«Osservatore» o su fogli a lungo inediti, quei diciannove componimenti sono tra le opere migliori di Gozzi per qualità dei versi e godibilità degli argomenti.

Con la consueta lucidità e acribia filologica Anna Scannapieco riconsidera l’esperienza dei coniugi Gozzi alla direzione del teatro Sant’Angelo nell’anno comico 1747-1748. Dopo aver confutato le diverse teorie contemporanee derivate dalle parziali testimonianze di Carlo e di Francesco Gozzi, figlio di Gasparo e Luisa, la studiosa dimostra in poche mosse come i coniugi avessero contratto un impegno non tanto con i proprietari del teatro per la sua gestione, quanto con una compagnia di comici, verosimilmente quella di Onofrio Paganini. La formazione si era installata al Sant’Angelo dopo un quinquennio verosimilmente fortunato durante il quale il teatro aveva dimostrato di potersi proporre come terzo polo veneziano del teatro di “prosa”, in concorrenza con il San Luca dei Vendramin e il San Samuele dei Grimani.

Javier Gutiérrez Carou propone in edizione critica ventiquattro sonetti attribuiti all’ingegno di Angela Tiepolo Gozzi, madre di Carlo e Gasparo, conservati manoscritti presso il fondo Cicogna della biblioteca del museo Correr di Venezia. Caratterizzate dall’allegoria di sapore manicheo fondata sull’opposizione buio/luce, vizio/virtù, le poesie disegnano un ideale percorso dell’uomo dalla nascita alla grazia divina. Ilaria Crotti rivolge lo sguardo all’epistolario dei fratelli Gozzi concentrandosi sulle lettere con destinatari femminili: ne risulta un curioso profilo di Gasparo intento a creare con sapiente teatralità un’immagine di sé sempre in primo piano, mentre proclama le sue perenni sofferenze. Egli è attento a pennellare, sempre in toni colloquiali, le tracce di esistenza che incontra nei suoi spostamenti, come in una «messinscena teatrale» (p. 232). Più concreto il fratello Carlo, autore di poche lettere destinate a Maria Fortuna e Caterina Manzoni, dalle quali trapelano senza filtri l’insofferenza per la prima e la passione sentimentale per la seconda. Nell’elogio di Carlo Gozzi della celebre Difesa di Dante (1758), scritta dal fratello maggiore, Alessandro Cinquegrani legge in filigrana la ricerca di un autorevole lasciapassare per il proprio lavoro di scrittura fondato, come il poema dantesco, sull’affermazione di una moralità che per converso si proclama assente nelle opere dei suoi avversari (Chiari, Goldoni).

In un doppio contributo Angela Fabris si misura con l’esperienza della «Gazzetta veneta». Nel primo la studiosa riflette sull’operazione pubblicistica gozziana intrapresa Sotto il segno della finzione. L’abilità del gazzettiere sta non solo nell’obiettivo dichiarato di allargare il bacino di lettori, ma nella realizzazione di tale progetto tramite «diversi […] gradi di inclusione del pubblico: da una generica menzione a un reticolo di quesiti retorici che lo chiamano in causa, fino a una sua diretta integrazione nel foglio. In quest’ultimo caso, in particolare, si deve considerare il pubblico quale costruzione fittizia della stessa istanza che – sotto forma di “gazzettiere” – ha il compito di redigere il giornale» (pp. 261-262). Questo punto rivela la disposizione letteraria di Gasparo impegnato nella creazione di veri e propri personaggi teatrali, specchio di coloro a cui la «Gazzetta» si rivolge: «uomini di lettere e senza lettere, genti occupate, genti oziose, capi e figliuoli di famiglia, vecchi, giovani, nobili, plebei, maschi e femmine» (p. 260). Nel secondo articolo la studiosa approfondisce con acume critico lo studio della «Gazzetta» come laboratorio di Gasparo Gozzi. Qui si esprimono le sue idee e le sue preferenze, ma, in un’ottica socialmente aperta e dichiaratamente inclusiva, si dà voce a tutte le opinioni (sebbene quasi sempre artificiosamente costruite).

Sulle ragioni che indussero Gasparo a scrivere Il mondo morale (1760-1761) e sui rapporti del libro con la realtà sociale veneziana si interroga Valeria Tavazzi. L’opera, considerata minore, è un romanzo allegorico con dichiarati intenti educativi. Analizzando il contesto culturale, la studiosa ipotizza che la scelta di Gozzi sia collegata a quella riflessione, promossa anzitutto dall’Accademia dei Granelleschi, che propendeva per una letteratura allegorica, moralizzante e più facile da comprendere per il pubblico contemporaneo. Chiude il volume un breve contributo di Stefano Trovato dedicato ad alcune carte ottocentesche del fondo Gozzi della Biblioteca Marciana.

Arricchisce la pubblicazione un cd-rom con la riproduzione integrale, in formato pdf “ricercabile”, della «Gazzetta veneta» (1760-1762).


Lorenzo Galletti


La copertina

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