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Carlo Goldoni

La scuola di ballo

A cura di Aline Nari

Venezia, Marsilio, 2015, 216 pp., euro 16,00
ISBN 978-88-317-2093-9

Ci sono opere nella produzione di Carlo Goldoni che solo per un fortunato caso si sono salvate dall’oblio. Opere che apparivano di poco conto agli occhi dell’autore, non interamente soddisfatto del proprio lavoro (come nel caso delle sue prime prove per il San Samuele) o deluso dallo sfortunato riscontro di pubblico, ma che egli ha infine deciso di pubblicare, seppure molti anni dopo il loro debutto sulle scene. È questo il caso della Scuola di ballo, recitata la prima volta il 22 ottobre del 1759 al teatro Vendramin di San Luca, replicata una sola sera e pubblicata da Zatta nel 1792 con il benestare del commediografo. In questo come nella maggior parte dei casi si tratta di testi che la critica ha accolto favorevolmente come prove documentarie, ma di cui ha spesso e a lungo riconosciuto la sostanziale inconsistenza strutturale, drammaturgica e di contenuti.

La scuola di ballo viene ora pubblicata a cura di Aline Nari nella Edizione nazionale delle Opere di Goldoni. Nella sua Introduzione la studiosa contesta le critiche dei commentatori al «carattere artificiale della lingua e del progetto drammaturgico». Ella ammette che la scelta della costruzione in terzine sia stata penalizzante per il buon esito della commedia, ma evidenzia l’«efficacia della costruzione che rivela, invece, la caratteristica abilità goldoniana nel gestire l’intreccio e un’interessante conciliazione tra i due modelli drammaturgici della commedia corale e della commedia di caratteri» (p. 10). All’altezza del 1759 la dimestichezza di Goldoni nell’orditura delle trame è però un dato acclarato, che a mio avviso conferma la debolezza della commedia, la cui vicenda si risolve banalmente in un quadruplice e prevedibile matrimonio.

È invece assolutamente centrale e interessante l’argomento coreutico, attualissimo, che Goldoni maneggia con straordinaria competenza e sul quale Nari sofferma giustamente la propria analisi (pp. 12-23). Il carattere più interessante della commedia sta senza dubbio nella descrizione e nella sottile critica del mondo della danza – con le sue regole non scritte e i suoi clichés – affidata principalmente alle parole di Madama Sciormand e di Ridolfo in qualità di portavoce del poeta, o a quelle di Rigadon e di Don Fabrizio come ridicoli protagonisti di quell’ambiente barcollante. Il quadro che ne risulta descrive un sistema non dissimile da quello deriso da Benedetto Marcello nel suo Teatro alla moda (1720) o criticato dai diversi trattatisti che, nel corso del Settecento, hanno dedicato migliaia di pagine al teatro musicale: la satira intorno a Rigadon che abbandona il mestiere di parrucchiere per fare il coreografo, gli impresari in angustie, i protettori, i virtuosismi dei ballerini riecheggiano i motivi marcelliani e avvalorano la sentenza disillusa di Giuseppina: «Aborrisco un mestier che per il mondo / tristi menzogne di chi l’usa ha sparte» (IV 4 60).

Come di consueto accade nelle metacommedie goldoniane, non si risparmiano riferimenti al mondo del teatro di prosa, all’interno del quale l’autore svolge la sua principale attività e ai cui palcoscenici La scuola di ballo è destinata. Il dialogo tra Don Fabrizio e Felicita offre a Goldoni l’opportunità di tirare una stoccata al Vendramin, al quale ricorda che le sue «opere studiate» «costano danari», e di affermare la supremazia del teatro “riformato” su quello dell’Arte (III 1 73-117). Nella decisione di Felicita di abbandonare il mestiere di ballerina per quello di commediante si riconosce infine il riflesso (seppure qui avvolto nell’alone satiresco astutamente preparato dal commediografo) di quella «pluralità performativa» recentemente sottolineata da Anna Scannapieco in un suo saggio dedicato a I “numeri” delle comiche italiane del Settecento. Primi appunti («Drammaturgia», XII / n.s. 2, 2015, pp. 109-128: 120, consultabile anche in open access).

Inserita da Goldoni nel progetto delle “Nove muse”, che doveva prevedere la stesura di nove opere di diverso registro scritte in metrica e dedicate ognuna a una dea del Parnaso, La scuola di ballo fu una delle poche che vide la luce nei tempi previsti dal suo autore, insieme a Gli amori di Alessandro Magno e Artemisia, rappresentati in autunno, a Gl’innamorati e a L’impresario delle Smirne, allestiti nel successivo carnevale; Enea nel Lazio e Zoroastro andarono in scena l’anno seguente, mentre degli ultimi due non si ha notizia. La fortuna di questi componimenti fu alterna presso i contemporanei, così come rimane ondeggiante oggi. E se il loro interesse storiografico rimane indiscutibilmente e quasi uniformemente grande, la rilevanza letteraria di alcuni di essi – tra cui certamente La scuola di ballo – si conferma, oggi come al tempo della loro stesura, assai scarsa.


di Lorenzo Galletti


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