Non sempre, tra il concepimento e
la nascita, i bambini passano tutti e nove i mesi nella pancia della mamma: cè
pure chi almeno un po di tempo lo trascorre nelle viscere del papà. È quello
che pensava la piccola Romana Pezzetta,
estasiata dalla empatia tra lei e babbo Mario, in arte Mario Petri. Ed è ciò
che, probabilmente ancora pensa quella bambina di allora, adulta e di
professione scrittrice con lo pseudonimo di Romana Petri: omaggio al padre, certo, ma soprattutto dichiarazione
dineludibile continuità.
Ora basso, ora baritono, ora entrambe le cose insieme, Petri
non fu solo il più grande Don Giovanni
mozartiano dei suoi tempi (anche nel giudizio di Thomas Mann, che volle
dedicargli in tal senso una copia autografata del Doktor Faustus) e un indubbio protagonista dei palcoscenici
operistici tra la seconda metà degli anni Quaranta e i tardi anni Settanta: fu
un mattatore (discreto e perfino pudico, dietro la complessione robustissima e
il metro e novanta di altezza, ma mattatore comunque) dello spettacolo
italiano, trascolorando dal melodramma alla musica leggera e concedendosi
perfino una pausa quinquennale dal mondo della lirica. Tra il 60 e il 65,
infatti, Petri si dedicò al cinema più commerciale di quel periodo, dove il
fisico gigantesco simpose (spesso in ruoli antagonistici, comè nel destino dei
baritoni) in Ercole contro i tiranni di Babilonia,
Sansone il tesoro degli Incas, Golia alla conquista di Bagdad e
perfino Totò contro il pirata nero: una parentesi che incrementò la sua popolarità
ma vissuta obtorto collo, dove le
soddisfazioni economiche furono inversamente proporzionali a quelle artistiche.
Le serenate del Ciclone
(era questo il soprannome che, nella natia Perugia, i coetanei davano al
debordante Mario) non intende offrire particolari riflessioni intorno allarte vocale
di Petri, al suo transito dal registro di basso a quello baritonale, a quel
bisogno di comunicare – presente pure in altri grandi cantanti della sua
generazione – che lo portava a concentrarsi sulla pregnanza della frase piuttosto
che sulla qualità del suono (ma è eloquente la paginetta dove si racconta come,
già da principiante, si preoccupava più di far percepire bene un “pianissimo”
che di lanciare un acuto voluminoso). Si tratta invece di una biografia di
ampio respiro, certo romanzata ma soprattutto romanzesca, da parte di una
scrittrice che pure in altre prove narrative ha giocato la carta della memorialistica
familiare sotto forma di fiction: e
se è proprio il vissuto di Mario Petri – il rapporto violentemente conflittuale
con il padre, le serenate notturne fatte per conto terzi, gli incontri di boxe
per pagarsi le lezioni di canto – che sembra uscire da un feuilleton, il registro dellautrice induce non tanto al fantastico
avventuroso, ma al mitologico trasfigurato.
“Mito” è una parola che ricorre
spesso nel libro e nella vita della piccola Romana: un mito introiettato ora
attraverso il cinema western, qui declinato
nella variante italiana di Sergio Leone, ora attraverso i poemi omerici (da bambina il papà le
raccontava lIliade e lOdissea, e il capitolo in cui padre e
figlia, prima dellalba, si tuffano in mare rivivendo gli eroi di quellepos è il più visionario e poetico del
libro). Anzi, senza forzare troppo la mano allautrice, non sarà azzardato dire
che la morale del romanzo, in fondo, è questa: insieme a Omero e al western, è proprio
il melodramma il terzo grande mito concepito dalluomo. In tale mitologia
familiare, dove babbo Mario è Ulisse e Romana (più maschiaccio lei del
fratellino) si trasforma in Telemaco, non cè però gran spazio per la
psicanalisi. Le serenate del Ciclone ha,
sì, un retrogusto di terapia psicanalitica: ma per il biografato più che per lautrice.
Come se – scrivendo – Romana volesse consentire a suo padre, trentanni dopo la
morte, di regolare i conti con rimpianti e rimorsi, successi illusori e sconfitte
apparenti. Per chi resta, invece, il dolore continua: lo ribadisce lultima
pagina del libro e, in fondo, la natura stessa di un romanzo come questo, incanalato
nel flusso della storia.
Le quasi seicento pagine coprono
infatti quei sessantatré anni di vita italiana, dal 1922 al 1985, in cui si
sostanziò la parabola umana di Mario Petri: fascismo, ricostruzione, boom economico, contestazione giovanile (perché
i padri ci sono anche per essere contestati, il romanzo non lo nega) scorrono
più in filigrana che in primo piano, ma Le
serenate del Ciclone resta un bellesercizio
di memoria collettiva. Romana Petri vince la scommessa di una narrazione divisa
in due parti teoricamente disomogenee (la prima – dalla nascita del padre alla
nascita dellautrice – come fosse scritta da un narratore esterno, la seconda –
dalla nascita dellautrice alla morte del padre – raccontata in prima persona),
approdando invece a notevole unità stilistica; dà vita a una tessitura verbale
“antica” e musicale, plasmando dialoghi in un dialetto umbro tanto rusticano
quanto aggraziato; e, soprattutto, mostra quella sincerità risoluta, ma non
impudica, che è alla base di ogni romanzo biografico ben riuscito.
Molti personaggi dello spettacolo
si affacciano tra le pagine: campeggia Leone con il suo cinema epico e
laconico, fanno capolino Alberto Sordi (avvedutissimo melomane) e Jack Palance, ma soprattutto emerge il
mondo dellopera. Maria Callas appare magnetica pure agli occhi
di bambina dellautrice, mentre lanima nera è Giulietta Simionato,
artefice dellostracismo subito da Petri alla fine degli anni Cinquanta, che lavrebbe
indotto ad abbandonare temporaneamente il palcoscenico per il set. Tra i due
cera stata una liaison con tanto di
denuncia (allepoca il codice penale prevedeva il reato di adulterio, e la
Simionato era sposata), sicché Petri – con senso dellonore e rassegnazione quasi
sveviana, singolare in un uomo che sapeva manovrare i pugni non meno della voce
– si prestò a una convivenza riparatrice. Che, terminata dopo un po, si
trasformò in implacabile rappresaglia.
Le figure peggiori, nel libro, le
fanno però i direttori dorchestra: Mitropoulos
gelido e perentorio, Karajan amichevole
ma ambiguo. Nulla, tuttavia, rispetto al giovane Riccardo Muti, cui
lautrice esplicitamente imputa la causa della delusione, poi vera e propria
macerazione, che portò Petri al ritiro definitivo dalle scene. Col senno di
poi, lepocale Macbeth fatto insieme
a Firenze segnò linizio della fine. Artefice di quel rilancio che sembrò
dischiudere a “Ciclone” una sorta di nuova carriera, tacitando i dubbi di chi
vedeva in lui un “ripescato” che troppo a lungo si era sporcato le mani con
canzonette e B-Movies, Muti poi gli voltò
le spalle. Nonostante i tanti progetti subito dopo messi formalmente in
cantiere, il maestro si volatilizzerà: e raggiunto al telefono mostrerà solo un
infastidito, spicciativo imbarazzo.
Petri cercò allora di ritrovare
se stesso in campagna, alla ricerca delle proprie origini: un isolamento destinato
solo ad accentuare quella misantropia che, spesso, ammorba i talenti in credito
con la carriera. Le ultime pagine sono la cronaca di uninsofferenza dolorosa e
di un declino caratteriale: la morte, per quanto prematura e allimprovviso,
non arriverà inaspettata. E riponendo il volume nello scaffale, pure il lettore
che non avesse mai visto né ascoltato Mario Petri difficilmente resterà insensibile
alla storia di un uomo tanto forte quanto fragile, di un cantante tanto energico
quanto misurato, di un artista tanto eclettico quanto coerente.
di Paolo Patrizi
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