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«Theatre Research International», Vol. 40, n. 2, luglio 2015
in association with the International Federation for Theatre Research

pp. 105
ISSN 0307-8833

Il secondo numero di «Theatre Research International» per il 2015 è dedicato, come esplicita l’editoriale di Charlotte M. Canning (pp. 137-139), alle Theatre’s Itinerant Routes/Roots e riunisce quattro saggi eterogenei per argomento, ambito geografico e metodologia. La loro compresenza testimonia quanto il teatro sia legato a doppio filo al cambiamento e al movimento di persone e di idee attraverso itinerari spazio-temporali non sempre immediatamente riconoscibili.

Nic Leonhardt  (“From the Land of the White Elephant through the Gay Cities of Europe and America”: Re-routing the World Tour of the Boosra Mahin Siamese Theatre Troupe (1900), pp. 140-155), indagando la recente performance Nijinsky Siam (2010) del coreografo tedesco Pichet Klunchun, ispirata alle fotografie de La danse siamoise (1910) del ballerino russo Vaslav Nijinsky, individua la fonte indiretta dei costumi e dei movimenti di danza tailandesi in una fortunata quanto poco conosciuta tournée della Boosra Mahin Troupe (1900). Trenta tappe nelle principali capitali mondiali – da Bangkok a Singapore, Parigi, Vienna, Berlino e San Pietroburgo – che vengono rivisitate attraverso i giornali dell’epoca.

Il saggio di Yonghee Lee, Theatre for the Less Oppressed than I: Reconsidering Augusto Boal’s Concept of Spect-actor (pp. 156-169), è basato su una personale esperienza di workshop con il regista e pedagogo brasiliano Augusto Boal, fondatore del Teatro dell’oppresso (TO). Tra i concetti coniati da Boal c’è anche quello di «Spect-actor», che prevede il coinvolgimento attivo dello spettatore. Proprio su questo concetto si concentrano le riflessioni di Lee, in un’ottica autoetnografica. In particolare, l’autrice si interroga sull’efficacia di un processo che, nella pratica, non è in grado di accogliere e armonizzare differenti linguaggi e identità. Ciò che viene messo in discussione non è, dunque, il principio su cui si basa il TO quanto la sua capacità di agire a livello sovranazionale. 

Anche l’intervento di Margaret Ames, Dancing Place/Disability (pp. 170-185), è riferito a un’esperienza autobiografica legata al suo ruolo di direttore/produttore della Cyrff Ystwyth Dance Company dell’Università di Aberystwyth. Una compagnia di ballerini, disabili e non, impegnata nella riscoperta delle tradizioni rurali gallesi. Concentrandosi su Capel: The lights are on (2012), una creazione pensata appositamente per la compagnia da Adrian Jones, Ames indaga il concetto di “immobilità” e la reciproca relazione tra spazio, dislocazione e vulnerabilità. Un modo per analizzare, attraverso la pratica, il rapporto tra performance e disabilità per arrivare alla definizione di una nuova teoria e alle sue possibilità di applicazione.

Con un notevole salto storico, lo studio di Safi Mahmoud Mahfouz, Carnivalesque Homoeroticism in Medieval Decadent Cairo: Ibn Dāniyāl’s “The Love-Stricken One and the Lost One Who Inspired Passion” (pp. 186-200), affronta un tema sostanzialmente inedito: quello delle parodie omoerotiche nello spettacolo medievale egiziano. Al centro della ricerca il Teatro delle ombre di Ibn Dāniyāl, medico e drammaturgo del XIII secolo. Giustamente ricontestualizzate, le sue commedie vengono lette come risposta satirica alle campagne contro la corruzione e il vizio condotte dal sultano Baybars al-Bunduqdārī dopo la caduta del califfato islamico, nel 1258.

A conclusione, due utili strumenti di lavoro: Book Reviews (pp. 201-226), con le recensioni dei principali studi in lingua inglese di argomento teatrale, e Book Received (pp. 227-230), con le segnalazioni delle ultime pubblicazioni di area anglosassone.


di Lorena Vallieri


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