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Cahiers Jean Vilar
Avignon, le rêve que nous faisons tous

2015 / n. 119, pp. 80, euro 10,00
ISSN 0294-3417

A un anno appena dell’insediamento del nuovo direttore del Festival, Olivier Py, si propone un bilancio sull’intera storia dell’istituzione avignonese. La materia è ripartita in sei periodi corrispondenti ad altrettante direzioni del Festival, dal fondatore alla coppia che ha passato il testimone a Py: otto persone in tutto, per sette gestioni, con l’ultima appena iniziata.

Jacques Téphany introduce alla riflessione sul Festival, improntandola all’equilibrio, alla fiducia e alla speranza. Rivolgendosi al visitatore (della città e del Festival) e al lettore (della pubblicazione), ricorda lo spirito forte e duraturo infuso da Vilar alla sua creatura e ne rinnova i motivi d’adesione convinta, mentre trae auspici per l’avvenire. Si interroga sulla validità della rassegna, dall’identità sempre fluttuante, condizionata sia dalla città che la ospita, sia dalla tipica dimensione nazionale, sia dalla vocazione allargata e conclude: «Si le théâtre est et demeure une activité minoritarie en quantité, il est symptomatique de l’état d’une société. En son temps, Vilar est parvenu à éléver son public. Il a donné à un moment de la conscience française le goût du bonheur par le théâtre. [...] Il ne faut pas cesser de rappeler que le Festival est au monde plus qu’aux Avignonnais» (p. 1).

Il fascicolo, uscendo prima dello svolgimento della manifestazione estiva, invita inoltre alla mostra retrospettiva – allestita presso la Maison Vilar – delle sessantotto edizioni precedenti con una documentazione davvero ricca e nel complesso inedita, data la ricontestualizzazione e il confronto di tante e così disparate esperienze. Vi appare un storia della Città Teatrale lunga settant’anni, in cui al primitivo sogno estemporaneo seguono progetti sottoposti a verifiche e a costanti tensioni conflittuali.

Il primo periodo – più studiato e divulgato – della conduzione di Vilar (dall’origine al 1971) è ripreso per sommi capi. I richiami sono all’idea di Teatro Nazionale Popolare, alle prime, esaltanti realizzazioni e allo spirito d’avventura che guidava la Compagnia e il suo Patron, gravato d’una responsabilità gestionale inusitata, nell’attuare il decentramento e nel valorizzare la Corte dei papi quale centro degli spettacoli. Momento comprensivo della contestazione degli anni Sessanta, che Vilar subì personalmente e personalmente superò, fedele al suo ideale. Poi è interessante comparare i passaggi evolutivi distinguendoli, coi rispettivi responsabili, nelle caratteristiche variabili che hanno reso importante, discutibile e comunque vivo e produttivo il luogo d’incontro di tante civiltà dello spettacolo. Di Paul Puaux si sottolinea la difficoltà nel rilanciare l’eredità del fondatore e l’apertura di nuovi spazi (accoglienti il festival-off), la convocazione della danza e la scoperta di nuove personalità. Il motto che accompagna il suo congedo è: «Apprends, enseigne, et pars».

Subentrando Bernard Faivre D’Arcier, si nota la crescita degli apporti internazionali. Cambia la firma nella grafica della comunicazione degli eventi: le tre chiavi campite da Marcel Jacno su manifesti e bandiere sono rimpiazzate da immagini di artisti designati ogni anno. I creatori indimenticabili sono Maurice Béjart, Pina Bausch e Ariane Mnouchkine. Il motivo di tensione è sentito nel rischio di «pariginizzazione» delle scelte e del gusto, sotto la presidenza Mitterand con Jack Lang ministro della cultura. La questione allora principale vede opporsi l’esigenza dell’action culturelle (gestita dalla politica) contro il pouvoir aux créateurs, reclamato dagli artisti. Nelle rappresentazioni, il Théâtre du Soleil, ispirando il suo Richard II di Shakespeare all’Estremo Oriente (1982), rivendica per il teatro la funzione di un esteso dibattito politico e per Avignone «un lieu où s’affirme la conscience citoyenne des artistes et de leur public» (p. 37). Il direttore intitola Le Vivant et l’Artificiel il tema dell’estate del 1984, nella quale viene adattato il dispositivo scenico e la platea principale è ridotta da tremiladuecento a meno di duemila posti.

Con svolta anche politica (di destra), oltre che culturale, subentra Alain Crombeque, abile nel perseguire un’innegabile continuità dell’universalità vilariana, con esiti dalle sorprese positive, fra le quali il Mahabharata di Peter Brook (1985) e la rappresentazione integrale di Le Soulier de satin di Claudel e Vitez (1987). Crombeque risente della scomparsa dei suoi sostenitori, mentre è chiamato ad affrontare il problema degli intermittents dello spettacolo, in cerca d’uno statuto sicuro alla loro professione. Il momento comprende anche la rivalsa della città nei confronti della sofferta ingerenza parigina, espressa dall’istanza «Le Festival aux Avignonnais».

Scaduto il mandato di Crombeque, ritorna nel 1992 Faivre D’Arcier, che ottiene l’incremento degli spettatori. Il suo progetto distintivo e ambizioso è costituire un Centre National du Théâtre, idea che non trova suffragi e investimenti congrui, e si dissolve quando il direttore verifica «les renoncements repétés de ses interlocuteurs politiques» (p. 54).    

È lunga la gestione della coppia di condirettori, Hortense Archambault e Vincent Baudriller, i quali introducono a saliente correttivo del dosaggio di estetica e attenzione sociale, un «artiste associé», responsabile di scelte artistiche specifiche per ogni stagione. La fluttuazione di consensi e riserve continua, ma fra le conquiste, i due possono annoverare in conclusione l’apertura del nuovo spazio della FabricA (luglio 2013), previsto quale spazio per le prove (di dimensioni analoghe a quelle della corte dei papi) e residenza degli artisti invitati.

La vague del teatro «postmoderno» comportava intanto l’attenuazione della valenza verbale della drammaturgia e indubbiamente apriva la via alla corporeità, nelle sue espressioni violente e disturbanti. La novità era cercata in certi sensazionali (e momentanei) superamenti: «Le corps douleureux repousse les limites du Verbe, une image vaut dix mille mots, les amateurs égalent les professionnels» (p. 66). Il tempo assegnato a Olivier Py non può essere conteggiato per cronologia e pertanto il fascicolo rinvia a un necessario aggiornamento. L’evento documentato, complesso in organizzazione, scelte, attese e compromessi, deve per natura lasciare lacune, imporre scarti, entusiasmare e scontentare insieme. Nel commiato programmatico, Continuons, la redazione presenta ancora un capolavoro di mediazione e di eclettica composizione dei contrari. Alla riconfermata abilità francese di valorizzare le proprie imprese, criticandole, chapeau!


di Gianni Poli


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