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La rivoluzione digitale nel cinema
Dalle origini alle nuove frontiere comunicative
A cura di Manuel Onorati

Roma: EUS Edizioni, 2015, pp. 116
ISBN 978-88-99164-26-3

Inizialmente impiegata solo in fase di post-produzione, oggi la tecnologia digitale si configura sempre più come generatrice di «nuovi mondi» cinematografici; non più, quindi, strumento di «spettacolarizzazione dell’immagine», ma consapevole scelta espressiva, sempre più assimilabile al concetto di «“autoriale”» (p. 10). Così esordisce Manuel Onorati che cura questa interessante raccolta di saggi dedicata alle implicazioni estetiche e produttive di quella che viene definita una vera e propria «rivoluzione» (p. 10).

Tenendosi a debita distanza da qualunque deriva deterministica, evitando quindi di analizzare il cinema contemporaneo esclusivamente in termini di causa-effetto, gli interventi qui proposti offrono una esauriente panoramica di come i progressi tecnologici digitali abbiano, nel corso del tempo, profondamente modificato il modo di produrre, fruire e pensare i film. Coniugando l’attenzione rigorosa per i dettagli tecnici con la parte speculativa, il volume rappresenta un utile strumento per la comprensione di alcune importanti tendenze in atto nel campo sia del cinema che, in senso lato, degli audiovisivi.

Nel primo capitolo, intitolato Nuove Frontiere, Luigi Boccia cerca di definire in maniera più dettagliata i termini di questo «riazzeramento storico e culturale» (pp. 14-15), indicandone come principali concause da una parte la maggiore accessibilità di attrezzature e software, dall’altra i nuovi canali di distribuzione concessi dal web. Non solo, le tecnologie digitali applicate al campo della produzione di immagini in movimento «hanno avuto effetti rilevanti su tutte le tradizionali fasi della lavorazione: pre-produzione, produzione, post-produzione» (p. 17); esse hanno di fatto comportato, cosa ancor più rilevante, l’avvicinamento di ognuna di queste fasi, conducendo nei casi più estremi alla loro parziale sovrapposizione. Dopotutto, «di per sé, il termine digitale non rimanda né a un supporto specifico né ad alcuna tecnica di creazione, ma esclusivamente a una procedura di codificazione», o meglio, a un «sistema di rappresentazione» (p. 18).

L’avvicinamento di pre-produzione, produzione e post-produzione ha indotto, come spiega Onorati in Sovvertire la grammatica, un ripensamento talvolta radicale delle pratiche lavorative. Tante le novità in campo: la possibilità di riprendere in condizioni di luce precarie, la preview in simultanea del risultato finale, la flessibilità dei movimenti di macchina. Il cambiamento più denso di conseguenze è il massiccio abbattimento dei costi: «le telecamere digitali sono più leggere da tutti i punti di vista, abbassano la soglia economica di accesso alla produzione e permettono l’esplorazione di nuove possibilità estetiche» (p. 26). In particolare, ad essere mutato è il ruolo degli attori, che «destrutturati digitalmente» si trasformano in esseri superiori capaci di «trascendere la schiavitù dell’organico», di farsi pura «spiritualità» (pp. 28-29). La nuova frontiera dell’animazione digitale «ha quindi raccolto la sfida più grande: la clonazione dell’attore umano» (p. 34).

Nel terzo capitolo, La storia del cinema digitale, Luigi Boccia storicizza il ruolo del digitale nel cinema. Si va da Star Wars di Geoge Lucas – il cui Distraflex (quello che oggi viene chiamato motion control) è il primo effetto speciale digitale – ad Avatar di James Cameron, che porta «direttamente sul set molte delle incombenze lasciate alla post-produzione, e quindi ridando il potere al regista» (pp. 50-51). In mezzo, Alien di Ridley Scott, Matrix di Larry e Andy Wachowski, 300 di Zack Snyder; apripista, quest’ultimo, di una radicale astrazione di personaggi e cose. Un discorso a parte merita il 3D, finta novità che, se non verrà adeguatamente sfruttata per le proprie potenzialità espressive, rischia di «essere destinata ad un nuovo esilio nel museo delle curiosità pubblicitarie» (p. 53).

In Filmmakers Digitali. Cronistoria sintetica dell’evoluzione audiovisiva prosumer Luigi Parisi passa in rassegna i principali tipi di segnali digitali audio e video, dall’introduzione dei formati DV e miniDV, all’HD, al 4K. Una piccola rivoluzione in questo campo è stata segnata dai primi software di montaggio non lineare: sino ad allora, l’unico montaggio possibile era quello sequenziale, con player e recorder. Ampio spazio viene dato all’aspect ratio imposto dall’HD: il passaggio dal 4:3 al 16:9 ha infatti portato non solo a un rapido cambiamento dei prodotti in commercio (monitor e tv color), ma anche e soprattutto a un diffuso ripensamento della composizione interna dell’immagine televisiva e cinematografica.

Di storia della tecnica si occupa anche Roberto Gerilli in I segreti delle trasformazioni cinematografiche: dalla stop motion al cinema 3D. Lo studioso suddivide il suo intervento in cinque categorie, corrispondenti ad altrettante figure stilistiche direttamente o indirettamente influenzate dalla tecnologia digitale. Si parla della stop motion, sopravvissuta alla grafica computerizzata soprattutto grazie ai lavori di Tim Burton; del chroma key, nato come effetto televisivo ma sempre più frequentemente impiegato anche in campo cinematografico; della motion capture, propria soprattutto delle produzioni videoludiche. Infine, si parla di effetto morphing e di 3D, nati rispettivamente negli anni Trenta (con Il Dottor Jekyll di Rouben Mamoulian) e Venti (The Power of Love di Nat G. Deverich e Harry K. Fairall). Ogni paragrafo è corredato da utili indicazioni su come sperimentare le tecniche elencate.

Chiude il volume L’Uomo che dava vita ai “Mostri” di Andrea K. Lanza: un commosso ricordo di Carlo Rambaldi, maestro italiano degli effetti speciali recentemente scomparso. Noto in tutto il mondo grazie a film come E.T., Alien e King Kong, Rambaldi «fu uno sperimentatore, un innovatore nel campo dei trucchi, anche agli albori della nostra cinematografia di genere, quando era impensabile portare sullo schermo un drago come fece lui, non accreditato, nel Sigfrido di Giacomo Gentiluomo (1957)» (p. 103). Amato dai registi del cinema di genere italiano (Mario Bava, Lucio Fulci, Dario Argento), Rambaldi rifiutò fino all’ultimo la computer graphics, restando fedele alla meccatronica (o più precisamente all’animatronica), di cui è considerato l’iniziatore. «Rambaldi fu un pioniere, uno sperimentatore, un genio che si offendeva se lo si chiamava artista, perché lui si era fatto le ossa nelle botteghe degli artigiani, e lui così si sentiva: un artigiano» (p. 109).


di Raffaele Pavoni


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