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Tadeusz Kantor

Ma Pauvre Chambre de l’Imagination. Kantor par lui-même

Écrits 1. Du théâtre clandestin au théâtre de la mort

Traduits par Marie-Thérèse Vido-Rzewuska


Besançon, Les Solitaires Intempestifs, 2015, 112 pp., 13,00 euro; 480 pp., 23,00 euro
ISBN 978-2-84681-445-4; 978-2-84681-449-2

Nel centenario della nascita, Parigi ricorda e festeggia il polacco Tadeusz Kantor come acquisito dalla propria cultura, membro di quella diaspora internazionale e apolide che l’arricchì di talenti e la rese famosa nel secolo scorso. Oltre che pittore e teatrante, Kantor fu originale pensatore e scrittore, assiduo nel registrare immagini e forme capaci di assumere, attraverso la scrittura, anche una spiccata qualità poetica. La raccolta Ma pauvre chambre de l’imagination vale da introduzione, secondo lo stesso autore, ai suoi Écrits, di cui esce il primo dei due volumi annunciati.

Jean-Pierre Thibaudat presenta il volume minore: «À la première ou à la troisième personne, Kantor raconte sa relation intense avec ces génies polonais que furent Bruno Schulz et Stanislaw Witkiewicz, brocarde la notion de metteur en scène, avance une approche originale de l’acteur et parle de ses spectacles comme des confessions personnelles» (p. 9), nel presente ricordo di Denis Bablet, studioso e divulgatore del pensiero di Kantor. Le nuove pubblicazioni offrono l’occasione per misurare la distanza dagli ultimi aggiornamenti critici italiani, risalenti alla traduzione di Il teatro della morte (ciclo allora curato dal Bablet, 1979) e al cospicuo contributo di Franco Quadri del 1984 (Saggio, Colloquio e Teatrografia). Mentre Radio3 diffondeva nell’aprile di quest’anno il programma in cinque puntate Tadeusz Kantor, veniva annunciato un convegno di studi a Roma.

Accompagnato dunque dalle riflessioni inedite dell’autore, mi inoltro nel volume (in formato maggiorato) degli Scritti, dove sfilano – anche grazie all’organizzazione a posteriori della materia, in vista di un’edizione non realizzata vivente l’autore – i momenti di un’evoluzione artistica sorprendente e dove s’incontrano concetti ed esperienze ripetuti e appassionatamente precisati per approssimazioni successive. Il testo appare quasi un unicum, specchio d’una vita intera consacrata alla creazione d’uno spettacolo unico. L’insieme è inoltre più completo e articolato, rispetto alla scelta del Bablet.

Nella carriera eclettica, si susseguono, fra scarti e conferme, i tanti spettacoli che, per fasi e varianti, confluiscono in un unico evento, continuamente incrementato e approfondito. Torna l’emozione, seppure decantata dal tempo trascorso dalla lettura iniziale, per un nucleo immaginario, utopico e poetico, di tensione al limite. Un’avventura di trasformazione, mai però confusa per sovrapposizione e spesso sincretica di ansie e ritrovamenti.

Le epoche diverse, che la cronologia distingue, ma non isola, partono dal 1938-1939, fecondate dai germi dal sodalizio intellettuale vivo a Cracovia, nato con Maria Jarema, Angelika Kraupe, Tadeusz Brzozowski ed Ewa Siedlecka; ispirato ai simbolisti e in reattivo confronto con le Avanguardie, a partire dall’esempio di Duchamp e dalla presenza ispiratrice di Witkiewicz. Il tutto raccolto nel fervore unitivo di istanze tenaci. Saltando subito alla fine del libro – attratto dallo spettacolo più noto, La Classe morta – colgo echi partiti dal fondo della vicenda creativa, per cui, mutata la consapevolezza e la profondità del punto di vista, le impressioni confluiscono sempre nei risultati delle formule migliori, degli spettacoli maggiori. L’immagine archetipica della «classe d’école», si rappresenta con un’evidenza incancellabile, in una memoria comprensiva di futuro, presente e passato; centro sorto e fissato nell’originale «chambre de l’imagination» che intitola l’autobiografia.

La composizione del volume in undici parti comporta la ripresa di situazioni, temi e obiettivi a volte segnati da date condivise, ma con sviluppi di aspetti diversi e integrabili. I primi anni dell’artista propongono «les textes fondamentaux auxquels Kantor se réfère sans cesse et qui contiennent les seules lignes constantes et intangibles de sa création: la responsabilité du spectateur, le refus d’illustrer un texte préexistant et l’inscription de son théâtre dans le monde contemporain» (p. 6).

Con la fondazione del Théâtre indépendant ou clandestin (1942-1944) si incontrano il Credo di una fede assoluta nell’autonomia del Teatro (p. 21) e i documenti inediti delle «partiture» di Balladyna (1943) e di Le retour d’Ulysse (1944), annotati in vista dell’esecuzione. Poi si passa al primo soggiorno parigino ricordato in Carnet de notes (p. 72), donde emerge il disagio (nel rifiuto) per il realismo socialista. Risalta la partecipazione alla vita artistica di Parigi e, con l’avvento del disgelo, la fondazione del Cricot 2. Il ritorno a Cracovia, infatti, richiede all’autore di precisare fini e modi del suo teatro-di-attori: «Contrairement à l’opinion superficielle qui attribue au théâtre Cricot des valeurs essentiellements plastiques, c’est un théâtre d’acteurs qui, au contact de l’avant-garde des peintres et des poètes, recherchent la possibilité d’une méthode radicalement nouvelle de jeu scénique» (p. 105) a motivazione del Gruppo eterogeneo, ambizioso d’una situazione rinnovata, d’una sorta di Arte Totale (p. 129).

A corredo, il testo riportato a scénario, di La Pieuvre, di Witkiewicz, allestito nel 1956. La Parte IV è dedicata all’Art informel, dove la storicizzazione delle teorie e dei fenomeni s’affida a testi dalla funzione espressiva e in cui ricorre insistentemente la nozione di hasard. Non manca la citazione dell’Artaud surrealista (p. 157), ma per rivendicare la distanza da un’interpretazione superficiale di quell’esperienza e riportarla alla sua più oscura, densa materialità. L’impresa in corso viene esaltata quale vera «grande CONQUISTA» (in italiano, p. 149).

In allegato, la partition di Le Petit manoir (1961) in cui i personaggi da pantomima, oggetti ricoperti da sacchi, prefigurano gli imballaggi applicati all’allestimento (scenografico, per Kantor) di Rhinocéros di Ionesco, dello stesso anno. Si tratta ancora di Emballages, sviluppati per ottenere «des arrangements qui seraient artificiels, c’est-à-dire qui auraient des chances d’être autonomes» (p. 189) per giungere al Manifeste del 1964. L’autore specifica l’evoluzione, dal collage all’emballage, lungo il periodo in cui «l’on ressent fortement le goût de ce qui est interdit et le sens de la transgression […]. Tout cela m’a permis d’aller au-délà de la peinture» (p. 194). Le conseguenze operative più prossime saranno nell’idea alchemica di ottenere l’oro (dell’arte) dalla materia più vile, la gloria dall’abiezione, in analogia con l’opera di Witold Gombrowicz: «Le phénomène discuté / balance / entre / EMBALLAGES… EMBALLAGES / l’éternité / et / la poubelle» (p. 101).

Il primo happening-cricotage, si svolge a Varsavia nel 1965. I testi probanti sono redatti come descrizioni dettagliate di azioni, se pure non vincolanti il senso, le durate, i segni concreti. Sullo sfondo delle Avanguardie storiche, si conferma la volontà di superarle: «Dans ce moment dynamique, je répète dynamique, nous avons outrepassé la position du surréalisme, que nous était naguère si cher» (p. 239). Seguono (Parte VII), Rèduire à zèro, contenente Le Fou et la Nonne (1963) e Le Théâtre des événements, segnato dalla rappresentazione di La Poule d’eau (1967) e che fornisce dettami per la recitazione in Les Méthodes de jeu de l’acteur (p. 329).

L’Époque de l’impossible si apre con Manifeste 1970, sull’arte illegittima (p. 373) mentre sempre nella contestazione a oltranza, Kantor delinea un «théâtre impossible», luogo dell’implosione dell’opera d’arte: «Non pas l’œuvre, le produit du processus de création, mais le processus lui-même» (p. 387). Nel bisogno di varcare la frontiera fra l’arte e la vita, Kantor si mostra sulla scena durante l’azione, ponendosi anche spazialmente tra la vita e l’arte, tra i fatti in corso e la loro esposizione formale. Sicché anche lo spettatore coinvolto divenga intermediario fra la scena e la realtà più universale, appunto, della vita.

Il succinto capitolo finale, Vers le théâtre de la mort (evocato in apertura), fornisce elementi sufficienti a intendere il senso a cui s’orienterà in definitiva la parabola iniziata quarant’anni prima. Soltanto manca, promessa nel prossimo libro, la sfilata in ombra e luce dei profili netti o deturpati di Où sont les neiges d’antan (Roma, 1979), di Wielopole Wielopole (Firenze, 1980) e delle prove per Aujourd’hui c’est mon anniversaire (1990).


di Gianni Poli


La copertina

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