Critica del teatro puro, iniziata alla metà degli anni Settanta e
portata a termine ventanni dopo, è forse lopera più ambiziosa del regista e
drammaturgo Alessandro Fersen
(1911-2001). Di famiglia
ebreo-polacca, si stabilisce dapprima a Genova dove si
laurea in filosofia con una tesi dal titolo L'Universo come giuoco; a seguito delle leggi razziali si trasferisce poi a Parigi ed in Svizzera. Con lo scenografo Lele Luzzati (1921-2007) instaura un pluridecennale sodalizio
artistico al Teatro Stabile di Genova; a Roma fonda una
scuola per attori ispirata al metodo Stanislavskij.
La
categoria del teatro puro delineata in queste pagine ne riafferma il primato
conoscitivo ed esperienziale. Talvolta il discorso si fa astratto
nella sua intransigenza, ma di certo è antidoto alla disinvoltura
culturale, ieri come oggi. D'altra parte, la significativa attività di teorico di Fersen è stata di fatto ignorata da buona parte della critica. Delle due versioni complete e delle numerose
frammentarie conservate presso il Museo Biblioteca dellAttore di Genova, viene
presentata qui la più recente annotata dall autore; laltra in appendice è la
versione ridotta, più vicina alle logiche editoriali e mai pubblicata.
Se è giusto dire che il
teatro ha origini rituali, per Fersen è più esatto affermare che il rito ha
origini teatrali. Latto del «teatrare»
è organicamente incorporato nellessenza del rito, che è un interiore atto
della memoria. La persistenza della struttura rituale del teatro vive nel passaggio dallevento misterico alla fase profanata del rito e in termini
più affievoliti, da questa al teatro come solitamente conosciamo, ovvero nella
sua mediazione letteraria e cristallizzata. Fersen disegna i confini che
dividono il teatro dal non teatro in una sorta di mappa ideale. Dove
linteriorità dellattore e dello spettatore non è coinvolta, dove la
suggestione scenica cede il passo al discorso, dove lo psicologismo sostituisce l illusione simbolica, comincia la zona equivoca del non-teatro. Egli arriva così a rappresentare il nucleo creativo della rappresentazione attraverso un
itinerario a
ritroso nel tempo individuale e storico che segue
tecniche e procedure simili a quelle della ritualità primitiva. Mentre queste teorie prendono forma, Fersen si allontana definitivamente dalla sua attività di regista e di direttore di teatri; dopo
il 1978 il lavoro con gli attori viene condotto in ambito non teatrale. A partire da considerazioni di
ordine filosofico, egli mette a punto la tecnica psicoscenica e la pratica del mnemodramma che ne rappresenta un'originale sintesi; alla base cè
una ricerca interdisciplinare che tiene conto soprattutto dellantropologia. Nel 1957 Fersen parte dall introspezione nel
comportamento dell'interprete e ben presto supera lapproccio
psicologistico: per lui lalternativa fra mimetismo istrionico teorizzato da Diderot e naturalismo di Stanislavskij ignora le ambiguità dellevento teatrale. Lattore deve invece intraprendere un vero e proprio viaggio all interno della propria interiorità per mezzo di tecniche che sono allo stesso tempo psicologiche e sceniche, sprofondando in uno stato di trance ed a latitudini interiori in cui la coscienza non è più presente. L'immedesimazione
scenica non appartiene alla vita e neppure alla simulazione della vita; ha invece
la qualità del gioco e del sogno, così reale nella sua irrealtà. Scopo degli esercizi è quello di incanalare la spontaneità della vita emotiva che si manifesta liberamente sulla scena. Lattitudine a dissociarsi dalla propria identità
abituale è quindi manifestazione della vocazione al teatro. E gli attori - entusiasti o depressi, così socialmente difficili- cosa rappresentano nel contesto
della società moderna? Il fatto che la vocazione dellattore porti in sé elementi di
precarietà interiore e di labilità nervosa non fa che ribadire per l'autore il carattere
enigmatico di unattività ai margini. Fersen ci mette in guardia ancora una
volta dagli allettamenti della vita borghese, perché lattore non tradisca se
stesso e la sua arte a surrogare la vocazione con la professione.
di Michela Zaccaria
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