Il numero 16 di «Fata Morgana», rivista cinematografica quadrimestrale, è dedicato al tema dell“origine” nelle sue diverse accezioni, «che sia essa etnica, culturale, religiosa, estetica, politica, morale».
Apre il fascicolo la sezione “Incidenze”, costituita da unintervista durante la quale linterlocutore viene interpellato sullargomento del numero, a partire dalla visione di materiale video selezionato dalla redazione: in Là dove ha origine il racconto. Conversazione con Edgar Reitz, a cura di Alessia Cervini e Bruno Roberti, il regista del ciclo di Heimat (1984-2006) risponde generosamente ai quesiti sul concetto di origine. La conversazione parte dal fatto che la parola “Heimat”, che significa insieme “patria” e focolare domestico” – e dunque in ultima analisi il luogo in cui si viene alla vita – ha anche il significato di “seconda nascita”, connessa con lallontanamento dal nucleo familiare. La “zweite Heimat” (seconda patria) corrisponde infatti a una libera scelta, un luogo delezione: «Pensavo proprio alla scelta che il giovane Hermann compie nel secondo Heimat, abbandonando il nucleo familiare». «Si può dire che larte e il cinema creano mondi che non esistono […]»: in un certo senso si tratta di una nuova nascita, o origine che dir si voglia. Partendo dal nucleo tematico “originale”, il colloquio con il regista tedesco a poco a poco si trasforma in unaffascinante riflessione che dalla figura del “ritorno”, ricorrente in Heimat, giunge a considerare il Cinema con la maiuscola in quanto arte che trova nel ritmo dato dal montaggio il suo principio ordinatore. Il Cinema per Reitz «ha un elemento rituale in sé, il fatto di ridare inizio al tempo, di farlo rinascere».
Ricco di interventi che spaziano dalle origini del cinema alla contemporaneità, il fascicolo di «Fata Morgana» continua con la sezione “Focus”, che raccoglie undici saggi di carattere generale in cui il tema-guida assume prospettive anche non strettamente cinematografiche. Paradossalmente la sezione si apre nel segno della negazione: nel suo saggio Limmagine senza origine, Roberto De Gaetano si sofferma su tre fasi fondamentali in cui limmagine cinematografica si sottrae ad ogni nozione di origine, verificandone la connessione con il montaggio: la dialettica o della rappresentazione infinita (Ejzenštejn), lintensiva o della rappresentazione frammentata (Bresson), larcheologica o della rappresentazione redenta (Godard). «Se in Ejzenštejn o in Bresson è in gioco la forma della creazione, sia essa pensata in modo dialettico o simbolista […], con le Histoire(s) di Godard in gioco sembra essere un problema redentivo: la questione dellimmagine, e del montaggio connaturato ad essa, non risiederà nel momento creativo e inventivo, ma nella sua capacità e forza redentiva. O, detto altrimenti, è la redenzione la vera forma della creazione. Come a dire che è nella ripetizione salvifica di un passato che non è passato ma che accompagna il presente che limmagine trova il suo senso». L«immagine senza origine e senza tempo non è altro che la facoltà dellimmagine, quella potenza di immagine, o quella forma di immaginazione, che fa sì che una immagine “data” non si risolva mai totalmente in se stessa, nell“ora” della sua presenza, ma sia abitata da una potenza, che ne costituisce la ricchezza e a riformulabilità». E più avanti conclude De Gaetano: «Il montaggio è la procedura cardine che al cinema lavora sul “passato” dellimmagine e sulla contemporaneità di questo passato con l“ora” […]».
Proseguendo allinterno di “Focus”, si segnala Le seduzioni del movimento alla nascita del cinema, in cui Erica Buzzo affronta il pre-cinema, laddove gli studi di fisiologia sintrecciano con i primi esperimenti volti a “catturare” il movimento: «ancor prima che il dispositivo cinematografico sia messo a punto, le potenzialità dimostrative delle immagini in movimento vengono intuite nellambiente medico». Così, partendo dagli esperimenti di Étienne-Jules Marey – che grossomodo negli anni tra il 1869 e il 1904 sinteressa «ai dispositivi fotografici e cronofotografici» – e dal pensiero filosofico di Bergson, passando attraverso le riflessioni di Deleuze, le ricerche di Jean-Martin Charcot, la scoperta delle immagini a raggi X e il lavoro del medico e antropologo Félix-Louis Regnault, lautrice rileva come alla radice di questi studi sperimentali vi fosse un dato emotivo: una sorta di esigenza dello sguardo di «toccare la realtà nascosta, ridurne la distanza dalla realtà esperita e persuadersi di risalire così alle origini di questultima».
Allinterno della stessa sezione Robert Bonamy riflette sulla questione dellorigine nel testo Teoria del film. La redenzione della realtà materiale di Siegfried Kracauer (edizione definitiva in inglese del 1960). Alla luce della recente pubblicazione del testo nella traduzione francese (2010), Bonamy conduce unanalisi approfondita dellopera di Kracauer. «Se la pubblicazione di Kracauer è contemporanea allavvento del cinema moderno degli anni ‘60, è proprio allinterno del rapporto tra le origini e la modernità che è possibile comprendere i suoi sviluppi teorici». Bonamy si sofferma in particolare sul concetto di camera-reality: esso «non è un realismo della percezione o una teoria della percezione. Ciò che fa da sfondo, lo scarto, emerge e compone la superficie dellimmagine. Il termine straccivendolo incontra il cinema, “la telecamera come straccivendola” si interessa anche ai rifuti […], limprevedibile cattura limmagine pur rimanendo anonimo, fluido e refrattario a qualunque simbolo o affetto». Di qui si giunge alla riflessione sullorigine fotografica del cinema, dove la fotografia devessere intesa come «scevra da una valore affettivo, vale a dire da un punto di vista personale o intenzionale e da qualsiasi intento formatore». Il soggetto al cinema lavora dunque sulla base di un oggetto cinema «aperto e indeterminato». «Raccogliere ciò che sfugge, leffimero, è la qualità primaria del cinema […]», per cui Kracauer apprezza particolarmente quei film «che prestano attenzione ai fenomeni solitamente relegati in secondo piano. Così, lepilogo di Teoria del film è incentrato sui momenti banali della vita quotidiana». Bonamy ne ricava la visione dellautore del concetto di origine: «la lettura strettamente materialista di Kracauer non contempla metafora e archetipo, le immagini non possono che trovare la loro origine nella materia cinematografica».
Nel suo intervento Immagini dialettiche nel cinema sovietico degli anni Venti, Massimo Olivero traccia un paradigma del concetto di origine in quella cinematografia attraverso specifici esempi. Il presupposto teorico dal quale muove Olivero è la definizione di origine secondo Walter Benjamin, che proprio negli anni Venti la descrisse come un vortice. «Il pensiero dellorigine benjaminiano è infatti la collisione feconda delladesso con un tempo altro, inatteso, che viene reinventato [… ] è innanzitutto anacronismo». E limmagine in grado di rendere giustizia di questo anacronismo è per Benjamin «unimmagine dialettica», non una mera copia del passato dunque, ma una sua reinterpretazione. Olivero ravvisa questo tipo di immagine in particolare in «due film sovietici della fine degli anni venti che veicolarono […] una visione alternativa, non ortodossa, originale, della ri-costruzione della temporalità e della messa in scena della Storia»: La montagna incantata (Zvenigora, 1927) di Dovženko e Lundicesimo di Dziga Vertov (1928). «[…] il cinema sovietico della fine degli anni Venti ha dunque in più casi dimostrato di sapere pensare la storia e il suo processo in maniera complessa, dialettica, originale» attraverso film che «mostrano una concezione del Tempo stratificata e anacronistica, in cui epoche e “strutture organizzative” diverse possono coesistere contemporaneamente nello stesso luogo e attimo». La volontà sottesa alle opere cinematografiche sovietiche del periodo preso in esame è infatti quella di raffigurare «la nuova origine, levento unico ma ripetibile della rivoluzione socialista».
Alessandro Cappabianca nel suo intervento dal titolo Lorigine del vortice, afferma che «ogni ricerca sullorigine, se spinta sufficientemente a fondo […], non può non essere presa in un movimento a spirale o a vortice, senza inizio né fine, piuttosto che imbattersi […] in un punto fermo iniziale […] dal quale partirebbe una linea continua […]». «Come scrive Deleuze», continua Cappabianca, «leterno ritorno si dice soltanto del divenire, del molteplice. È la legge di un mondo senza essere, senza unità, senza identità» e pertanto senza fine e senza origine. In questo senso ha ragione Deleuze quando dice che «ritornare è il solo “essere” del divenire». Per cui «Se non si può ammettere lirreversibilità del passato, se occorre che esso, per essere modificabile, ritorni, ebbene, esso ritornerà secondo modalità sempre diverse. Diversa sarà lorigine che torna […] per dal luogo, eventualmente, a mondi diversi». Attraverso opportuni esempi, tratti dal cinema di Malick, Godard, Péter Forgács, Alina Marazzi, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Sokurov e Tarkovskij, per citarne alcuni, lautore esplicita questo concetto fluttuante e indefinito di “origine che torna”.
Nella sezione “Rifrazioni”, che raccoglie interventi più brevi (quindici in questo numero), dedicati a singoli film o sequenze che ruotano attorno alloggetto del numero, si segnala Dellordine e del disordine: Viaggio allinizio del mondo di De Oliveira, in cui Claudio Di Minno si sofferma sul film del 1997, la cui sceneggiatura fu scritta dal regista portoghese prendendo spunto da una storia successa ad un attore del film Desejado (Paulo Rocha, 1987). La rielaborazione di De Oliveira prende la forma del viaggio alla ricerca delle proprie origini, dal quale risulta però linattingibilità dellorigine stessa.
Il saggio di Marco Luceri La duplice rielaborazione del mito delle origini in WALL•E focalizza invece lattenzione sul cinema americano contemporaneo. Mediante lesempio del film di A. Stanton (2008), interamente girato in digitale, lautore rileva lattuale inclinazione della produzione americana a sottrarre levoluzione tecnologica a una dimensione puramente ludica. Questa sorta di «reazione alla cultura cinematografica postmoderna» in WALL•E prende le sembianze di un «“doppio” recupero delle origini», nella misura in cui il «ritorno alle strutture narrative e linguistiche del cinema classico» veicola la paradossale rielaborazione della storia di Adamo ed Eva, mito fondante – e dunque “originale” – della civiltà occidentale, secondo la tradizione cristiana. In WALL•E viene messa in atto una sorta di «metabolizzazione e normalizzazione degli effetti speciali» al fine di veicolare una morale edificante a carattere ambientalista.
Chiude sezione e numero linteressante La “cosmopoesia” di The Tree of Life, di Diego Mondella, in cui lautore indaga sul concetto di origine nel film di Terrence Malick (2011), nel quale la vita si dà come un conflitto tra i principi contrapposti di Grazia e Natura. Dal film, annota Mondella, si evince il «senso di una co-appartenenza di tutti gli altri esseri del mondo in una comune origine costitutiva che stabilisce la fratellanza di tutti gli enti», come dimostrano i riferimenti iconografici puntualmente riconosciuti. Daltro canto «nello stesso tempo in cui si celebra il Principio di tutte le cose […] si assiste alla contemplazione della part destruens, ovvero la finitezza e la fragilità costitutiva delesistenza. La morte è espressione del fatto che ogni vivente è parte temporale di una vita più grande». Caratterizza il viaggio del protagonista «un desiderio di Assoluto […] i cui passaggi tra passato, presente e altrove, si condensano nella figura terminale del “ponte”». In The Tree of Life «lesperienza della realtà viene in qualche modo a coincidere con lesperienza della creazione in atto».
di Elisa Uffreduzzi
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