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«Duellanti», a. X, n. 76 aprile-maggio 2012


pp. 120, € 6.00
ISSN 1724-3580

La copertina scelta per il numero di aprile-maggio sintetizza con forza il concetto di «attrazione mostrativa» formulato dallo studioso Noël Burch agli inizi degli anni Novanta a proposito del cinema delle origini. L’immagine della luna mélesiana colpita in un occhio dall’atterraggio di una navicella spaziale è divenuta il simbolo di un’epoca, di un preciso linguaggio cinematografico, la cui conoscenza si sta pian piano estendendo anche in terrotorio extra cinefilo. Riportando questi potenti fotogrammi sul grande schermo grazie alla realizzazione di Hugo Cabret, Martin Scorsese elabora un discorso teorico sul cinema come dispositivo dello spettacolo e immenso organismo sociale. Aprendo l’ampio spazio dedicato al fim, Ivan Molieterni intende precisare che il 3D in questo caso non viene impiegato come strumento dialettico tra antico e moderno, ma al contrario rende esplicito a un pubblico vasto e di età indefibile lo stretto legame esistente tra il primo cinema e quello contemporaneo, che punta sugli effetti speciali e le tecnologie più complesse. Lo scopo è il medesimo: stupire lo spettatore. La messinscena di ogni singolo detaglio ha il compito di ripristinare l’atmosfera di stupore e curiosità da cui era circondata la platea che assisteva alla traduzione dei fatti della vita su un telo bianco. Ma non solo. Il cinema delle origni, così come quello contemporaneo, mette in luce l’immaginario nascosto in ognuno di noi. Il patrimonio rievocato in Hugo Cabret è composto da numerose citazioni e fotogrammi inseriti nella narrazione con un intento didattico caro al regista americano. Come ci tiene a ricordare Roy Menarini, da sincero appassionato di cinema delle origini, Scorsese è impegnato in prima linea nei restauri, nella ricerca, nella conservazione e nello studio di film muti grazie alla costituzione della sua World Cinema Foundation. Franco Marineo insiste sulla stretta correlazione esistente tra il primo cinema e quello post-moderno: «come tenere insieme il genio artigianale di Georges Méliès e la meraviglia high tech del 3D se non ricordiamo a ogni svolta che alla base c’è la stessa illusione, che il trucco non cambia, che la fascinazione rimane uguale di fronte alle creazioni del pioniere francese o dentro l’ambiente immersivo congegnato dall’autore italoamericano?» Infine, Anna Antonini analizza il processo di trasposizione cinematografica attuato da Scorsese nei confronti del romanzo fantastico di Brian Selznick.

La sezione «incontriepercorsi» si apre con un piccolo approfondimento su A Simple Life, definito come «vero gioiello di emozione», diretto da Ann Hui e magistralmente interpretato da Deanie Ip, alla quale è stata assegnata la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile alla 68° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Nelle pagine successive, Federico Gironi intervista David Fincher a proposito del suo ultimo lavoro: l’adattamento del romanzo di Stieg Larsson, Millennium – Uomini che odiano le donne. Dal dialogo tra i due emerge l’amore che Fincher prova per il personaggio di Lisbeth Salander, tanto da rappresentare il vero fulcro emotivo e narrativo dell’opera, rispetto al macchinoso e preciso disegno giallo che viene tracciato dalla penna del romanziere svedese. Il regista racconta di aver voluto evidenziare non solo la violenza fisica, ma anche quella subdola e psicologica, la vera cattiveria, ben più pericolosa di una diretta aggressione, per quanto malata e letale. Sempre nello stessa rubrica, Valentina Torlaschi incontra Stefano Sollima, autore di ACAB – All Cops are Bastards. Nel corso dell’intervista la redattrice cerca di rintracciare delle analogie con il recente Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari. Cambiando nuovamente area geografica e genere cinematografico, la rivista dedica un piccolo spazio all’opera di Steven Spielberg, War Horse, dove secondo Rocco Moccagatta, il regista recupera quella vena umanistica e immaginifica insita nella sua poetica, recentemente soffocata dalla tecnologia. Secondo il critico, a Spielberg dona la lontanaza da Hollywood: dopo la realizzazione de Le avventure di Tintin – Il segreto dell’unicorno, si accosta a una produzione fortemente debitrice del cinema inglese degli anni Quaranta e Cinquanta, quello ugualmente realistico e umanista sotto la patina del Technicolor, alla Michael Powell e Emeric Pressburger. La rivista pronone anche uno speciale dal titolo “cinema in carcere”, dove si analiazzano Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani, Hunger del talentuoso Steve McQueen, la serie televisiva firmata da J. J. Abrams Alcatraz, e altre pellicole meno conosciute come L’amore buio di Antonio Capuano, presentato alle Giornate degli Autori in occasione della 67° Mostra di Venezia.

Marzia Gandolfi e Francesca Monti prendono in esame rispettivamente il corpo attoriale di Jean Dujardin e quello di Maryl Streep. Se il primo è stato reso celebre dall’interpretazione di George Valentin nel film trionfatore agli Oscar 2012 The Artist (M. Hazanavicius), la seconda non ha certo bisogno di presentazioni. Tuttavia, per la redattrice la prova della Streep, che le ha valso la terza statuetta in più di trentacinque anni di carriera, ha rischiato di oscurare, se non addirittura fagocitare, la figura della Lady di ferro, Margaret Thatcher.

In questo ultimo numero resta da segnale l’uscita in dvd di Ruggine, esempio di cinema in rivolta firmato da Daniele Gallianone - secondo Gianni Canova - uno dei pochi registi italiani in grado di farci percepire lo scorrere del tempo.




di Francesca Valeriani


«Duellanti», a. X,  n. 76 aprile-maggio 2012

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