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Revue d’histoire du théâtre, n. 3, juillet-septembre 2011


n. 3, juillet-septembre 2011, pp. 223-318
ISSN 1291-2530

Il nuovo numero della «Revue d’histoire du théâtre» si apre con un contributo di Hélène Denis dedicato alla memoria dell’arte dell’attore nella società francese del diciannovesimo secolo. Procedendo per exempla, Denis mostra come i vari necrologi ottocenteschi degli acteurs della Comédie-Française (poi Théâtre-Français), vergati dalle tribune privilegiate delle principali testate parigine, abbiano di volta in volta innescato nell’opinione pubblica una riflessione sulla qualità della recitazione sulle scene francesi dell’epoca, destinata a sfociare quasi sempre nel rimpianto topico di una perduta (presunta) età dell’oro (quella delle generazioni precedenti).

 

Patrick Le Bœuf aggiunge un tassello alla ricca bibliografia su Gordon Craig, prendendo le mosse da una recente ipotesi di Franco Ruffini (Craig, Grotowski, Artaud: teatro in stato d’invenzione, Roma-Bari, Laterza, 2009): Craig avrebbe attinto a piene mani dalle teorie di François Delsarte dopo aver letto nel 1905-1906 una copia del Delsarte System of Expression di Genevieve Stebbins (1885). Le annotazioni autografe di Craig registrate su quella copia “di lavoro” (ora alla Bibliothèque nationale de France), esaminate da Le Bœuf, veicolano una riflessione sul delsartisme craighiano, nonché alcune considerazioni sull’amicizia tra lo stesso Craig e Percy MacKaye, figlio di Steele, fondatore del movimento delsartista negli Stati Uniti.

 

Se Nathalie Coutelet si occupa delle ben note teorie wagneriane sull’opera d’arte totale, ispiratrici di molteplici e differenti correnti artistiche del primo Novecento, Sylvie Roques fa il punto sull’unico romanzo di Jules Verne adattato per il teatro, Kéraban-le-Têtu (1883), soffermandosi sui problemi di trasposizione dalla pagina alla scena, non ultimo quello di rendere scenicamente la sconfinata varietas dei luoghi di terra e di mare che fanno da sfondo alle rocambolesche vicissitudini dell’intreccio.       

 

A un’altra pièce teatrale, Le Juif du Pape di Edmond Fleg (1926), è dedicato il contributo di Roger Klotz. Scritto nel primo dopoguerra, all’epoca del patto di Locarno, Le Juif du Pape intavola una riflessione sulla pace, invocando l’utopica riconciliazione giudaico-cristiana attraverso il racconto fantasioso dell’incontro realmente avvenuto tra papa Clemente VII e l’ebreo Salomon Molko (1527).

 

Da Fleg a Sartre. Hyun-Jung Kwon prende in esame Huis clos (1944) del celebre filosofo, drammaturgo e romanziere francese, dimostrando come il messaggio ideologico contenuto nella pièce sia affidato non alle astrazioni proprie di una “tirata” filosofica, ma direttamente alla struttura drammatica. In Huis clos Sartre incrina dall’interno le convenzioni della drammaturgia classica (tempo, luogo, azione) per esprimere la sua idea dell’ “altro” e della responsabilità della scelta individuale.  

 

Infine, Atsushi Kumaki ripercorre l’itinerario compiuto da Antonin Artaud verso la cosiddetta “teoria della crudeltà”, fulcro del suo pensiero anche negli anni più tardi, individuandone i tratti salienti in Le Théâtre et son Double (1938).

 

Chiude il fascicolo il consueto spazio dedicato alle recensioni di libri e riviste, a cura di Catherine Cessac e Huguette Hatem.


di Gianluca Stefani


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