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Antonin Artaud

Cahiers d’Ivry
I: Cahiers 233 à 309; II: Cahiers 310 à 406
A cura di Évelyne Grossman

Paris, Gallimard, 2011, pp. 1168 + 1192, 38,00 + 38,00 euro
ISBN 978-2-07-012258-5 / 978-2-07-013574-5

A conclusione delle Œuvres complètes di Antonin Artaud, esce un libro in due tomi ponderosi, che se letti isolati dalla vasta Opera precedentemente pubblicata, rischiano di causare una pericolosa confusione. Se Antonin Artaud – con la sua fama di attore e teorico della scena, poeta integrale, inclassificabile figura di pensatore e scrittore del Novecento – si dovesse giudicare da questi voluminosi, affollati e frammentari cahiers, redatti nell’ultimo periodo della vita (a Ivry, dal febbraio 1947 al marzo 1948, si contano 174 quaderni) l’esito risulterebbe senz’altro deviante e inadeguato. Questa parte, curata con scrupolo editoriale da Évelyne Grossman, va piuttosto utilizzata nel confronto costante con gli scritti pubblicati e finora disponibili, cioè soprattutto le Œuvres complètes, giunte al volume XXVI (1994) e il compendio, revisionato e integrato delle Œuvres, a cura della stessa Grossman (2004). La vicenda di quell’edizione ha conosciuto diverse traversie (a partire dal 1956) con una svolta a metà anni Novanta, dopo la morte della prima curatrice, Paule Thévenin, nel 1993. Questioni d’eredità e di diritti d’autore bloccarono a quel punto la prosecuzione del piano editoriale, allora comprendente altri sei volumi rimasti inediti. La soluzione del problema, superati gli intoppi legali, è stata affidata alla nuova curatrice. Se la l’impegno della Thévenin s’era posto come tentativo di edizione e revisione critica, comprensivo di collocazione, interpretazione (e qualche interpolazione, giustificata dalla frequentazione assidua dell’autore), quello attuale mira innanzi tutto alla riproduzione fedele dei manoscritti, addirittura allegandone diversi in fac-simile. «C’est l’un des principes fondamentaux de la présente édition – precisa la Grossman: – de très nombreuses reproductions de pages de cahiers donnent à voir et à lire en même temps cette mise en scène des signes sur la page (dessins, écriture) qui caractérise la mise en espace théâtrale, graphique et rythmée des derniers textes d’Artaud» (p. 1182).    

 

Del resto, la curiosità sullo stato materiale dei documenti era stata lodevolmente soddisfatta, in parte, dall’importante mostra allestita dalla BnF nel 2006, con l’esposizione significativa di esemplari di quaderni, disegni, note ed edizioni originali, accanto a un’esauriente documentazione audiovisiva. Quanto ai contenuti “nuovi” del libro, si tratta di documenti originali del laboratorio del pensiero e del linguaggio del poeta, la sua “vita” ridotta in scrittura, in segni costitutivi di analogie con stati spesso inesprimibili, testimoniati comunque dalle opere edite. Codesta quantità di detriti e scarti mantiene un valore sovente equiparabile a quello dei testi stampati. La sensazione è di una incommensurabile dispersione, in un reiterato sforzo di espressione di sé. Infatti si tratta di voce che si scrive e che tende nel ri-ascoltarsi a verificare l’effetto sempre frustrato della propria comunicazione. Temi, mitologie, ossessioni, immagini tipiche, ammettono incessanti riferimenti a quelli altrimenti noti. Teatro, crudeltà, corpo, essere, scrittura, sessualità, magia; oltre a neologismi e glossolalie, soprattutto, emergenti nel panorama già addensato e confuso della pagina. Nota la Grossman: «Le lecteur y trouvera les éléments qui nourissent l’écriture des derniers grands textes d’Artaud sur l’art, le théâtre, la sexualité, la lutte contre les forces démoniaques» (p. 2333). Allo studioso odierno non manca quindi l’ardua possibilità di nuove interpretazioni complessive, considerando che: 1) Gli scritti raccolti nelle Œuvres complètes a cura di Paule Thévenin (usciti a partire dal 1956, ma preparati all’inizio con l’autore vivente) comprendono ventisei volumi e giungono a Histoire vécue d’Artaud-Mômo nel 1994; 2) I materiali genetici e le varianti degli ultimi titoli sono allegati agli apparati dei volumi relativi; 3) I restanti appunti e abbozzi, in forma sparsa, disorganizzata e talvolta illeggibile (che col piano editoriale della Thévenin costituivano i Cahiers du rétour à Paris, di cui sei volumi rimasti inediti) costituiscono ora questi Cahiers d’Ivry, curati dalla Grossman, la quale ha già edito la raccolta di tutti gli scritti fondamentali (Œuvres, 2004), quasi canone di riferimento. Risulterà allora plausibile qualche ipotesi di ricerca riguardante certi aspetti più profondi e forse trascurati dell’opera. Intanto si conferma però la marginalità a cui è pervenuta la teorizzazione artaudiana, in rapporto allo sviluppo storico della drammaturgia e della messa in scena nel Novecento. In questa fase finale, la concezione di quell’esperienza torna, ma sempre più divergente dalle estetiche e dalle pratiche artistiche storicizzate. «Je ne crois pas à un / art vivant, / je ne crois pas / à... / mais j’exige / une vie / le théâtre est un truc / pour desaimanter / des puissances / efficaces / par le fait de la représentation / scénique des / energies fondamentales / sont annihilées» (p. 794). Pertanto, il problema teatrale, respinto in coscienza e volontà fuori dell’arte della scena, viene inglobato nello scontro insolubile fra le proprie energie interiori di rigenerazione e le potenze nemiche esterne. Un «théâtre de la cruauté» si precisa come «écriture», segno impresso sul foglio a condensazione di un gesto totale d’espressione fisiologica, anche vocale: «Il expulse, extériorise, mais pour faire affluer les démons» (p. 1179), nota la curatrice nella Préface, dove indica provenienza e senso di quel gesto: «L’écriture, pour Antonin Artaud, a toujours été un acte, théâtral et vital […]. Ce que cherche Artaud c’est à incarner dans son corps d’écriture le corps infini de la langue» (pp. 7 e 12). Artaud è il vero, assoluto attore, poiché poeta integrale, padrone delle sue facoltà creatrici: «…et que c’est moi qui les ai / faites / je fais les choses avec / la main ... » (p. 866). Altra ipotesi suggeribile, mi pare quella di verificare la responsabilità creativa opposta dall’artista ai limiti dell’alienazione (per la quale è stato internato in manicomio). Essa è recuperabile a ritroso, dall’ultimo anno (1948) all’età degli scritti surrealisti, poetici e polemici. «Logique paradoxale» è per la Grossman il pensiero che impregna completamente l’autore e che, secondo me, deriverebbe dalla stessa «logica dell’Illogica» propugnata da Artaud negli anni Venti ai primi contatti col Surrealismo. Tant’è vero che la curatrice, ricordando la precocità con cui Artaud si sente spossessato del corpo, scisso istericamente, afferma: «Cruauté est le nom de cette logique paradoxale» e giunge alla formula «Le théâtre d’Artaud est une hystérie maîtrisée» (p. 1177).

 

I campioni prelevati dalle oltre duemila pagine, riflettono l’accumulazione caotica e la reiterazione ossessiva di temi e immagini confluiti in opere relativamente note, quali La culture indienne e Ci-gît, Le Rite du Peyotl, Suppôts et Suppliciations, Van Gogh, le suicidé de la société, Pour en finir avec le jugement de dieu, Artaud-le-Mômo, Le théâtre et la science, Contre la Cabbale, Aliener l’acteur. Il superamento della condizione del corpo è il bisogno primario e assoluto: «Je suis le corps, / extrème, / absolu. / après moi / il n’y a plus rien» (p. 209); per cui l’artista prosegue nel programma di gestione corporale per trasformazione e rigenerazione (p. 413); per combattere il dolore, si cura con le droghe da cui tenta di disintossicarsi; nella ricerca di un «corpo-senza-organi», afferma la centralità del corpo come costitutiva della persona-Artaud: «Je ne suis pas un organisme…» (p. 256); «Le corps d’un homme / c’est un corps absolu» (p. 231); «Je suis le corps vrai…» (p. 844); «Je suis un corps / je fais des corps / par magie [...] C’est moi / moi / Antonin Artaud / le vivant / le conscient / qui suis le maître» (pp. 918-19); «C’est moi / qui me serai refait / moi même /entièrement » (p. 650); «Je ne suis pas un être, je suis un corps» (p. 1076). La lotta contro l’Altro, l’Avversario è fatica di Sisifo: «Les gueules crispées de haine / impuissante des esprits excavateurs de dieu...» (p. 414); «…parasites… les êtres qui voudraient empêcher cette emission… des êtres incapables par nature / d’aller au délà / de ce qui est...» (p. 564). È un repertorio dilagante, in un magma incontenibile, che soltanto scelto e incanalato nelle Opere sembra sottrarsi al caos. E impressiona, infine e sempre, la lucidità con cui l’autore persegue l’invenzione di un’immagine di sé (Cahier 389, décembre 1947, pp. 2145-46) in una cosmogonia perfettibile all’infinito.


di Gianni Poli


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