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Franco Celenza

La ragione in fiamme
Vita, opere e “follia” di Antonin Artaud

Milano-Roma, Bevivino Editore, 2010, pp. 278, euro 18,00
ISBN 978-88-95923-13-0

Alcune perplessità che sorgono alla prima lettura, rischiano di condizionare l’analisi e la valutazione di quest’ultimo saggio su Antonin Artaud, nato con intento divulgativo a buon livello e ambizione di completezza. Il disagio e il disaccordo immediati nascono dai numerosi riferimenti errati e approssimazioni, nella collocazione del personaggio nel suo tempo e nei suoi contatti culturali significativi. Si parte dalla retro-copertina, nella quale si afferma che Artaud “morì suicida”, fatto non vero; poi si incontrano errori nei nomi e “sviste” ricorrenti. Così si apprende, ad esempio, che J. Louis Barrault si formò “al monacale cenacolo del Vieux-Colombier”  (p. 179) e che Artaud intitolò uno scritto La retata, indicativo dell’estetica applicata alla messa in scena di Les Cenci nel 1935 (p. 128-29), quando si tratta di Il Théâtre Alfred Jarry, del 1926, qui riprodotto in due estratti e in corpi differenti, creando confusione sulle origini e la funzione degli scritti. Il “Théâtre A. Jarry”, che “restò aperto dal 1926 al 1930” (p. 123), appare verosimilmente un edificio di spettacolo e non un’iniziativa estetica e organizzativa del teatrante agli esordi. Nel trattare di Héliogabale, l’opera è definita ora “testo iniziatico”, ora “romanzo storico” (p. 152). Facendo proprie certe formulazioni di Camille Dumoulié (trascritto Demouliè) sul “dolore” e sul “furore” artaudiani, Celenza sintetizza (o forse cita): “Artaud pone di primo acchito la questione radicale del suo essere e, conformemente al registro giuridico che rientra nel teatro del furore, pone la questione in termini di diritto” (p. 83): ne deriva un’allusione oscura e ambigua a un nucleo che aveva già trovato in Le notizie ardenti del dolore (in Poli, A. Artaud. La poesia in scena, 1997) un tentativo di confronto e soluzione ben problematicamente plausibile.

 

Dal titolo del libro e dalla Prefazione di Cesare Milanese, articolata attorno alla “follia”, si attenderebbe una trattazione serrata ed aggiornata sui procedimenti e i testi che fanno di Artaud un campione unico dello sforzo di espressione contro l’alienazione, nella tensione a un’opera cosciente, responsabile e assoluta. In apertura l’autore reperisce coerentemente una fraternità spirituale che accomuna pensatori e artisti come Lucrezio, Tasso, Poe, Hölderlin, De Maistre, Nerval, Lutréamont e Nietzsche in una “costellazione di folli”. Il risultato resta generico, dopo la premessa-promessa di un approccio analitico, almeno delle conseguenze delle condizioni del Poeta sulla propria Opera. Il paragrafo I manicomi nella Francia occupata dai tedeschi poco aggiunge alla nota vicenda del creatore a lungo internato. Anche per rintracciare le linee evolutive della poesia di Artaud e i rapporti con il Surrealismo e con la “Nouvelle Revue Française”, si fa ricorso a citazioni congrue, povere però rispetto ai percorsi acquisiti.

 

Decisivi dovrebbero rivelarsi Ridiscussione critica dell’opera di Artaud, La teatrologia di Artaud e Il teatro della crudeltà. Rievocate alcune voci fondamentali (lontane) nello studio dell’ardua problematica artaudiana, quali quelle di Derrida, Deleuze, Sollers, Foucault e Guattari (e il dibattito pertinente sull’anti-psichiatria), Celenza avvalora il contributo di Artioli e Bartoli (1978), ma trascura almeno il celebre saggio Entendre/Voir/Lire di Paule Thévenin (“Tel Quel”, 1969), il primo grande bilancio documentario di Alain Virmaux (1970) e il saggio di Gerard Durozoi sull’alienazione e la follia (1972). Fra gli eventi più recenti, manca la considerazione dell’importante Mostra parigina (Bnf, 2006), per cui l’opera grafica, nonché il cinema e la critica d’arte restano inesplorati. Attorno alla Teatrologia e alle sue derive paradossali, il saggista raccoglie e accosta citazioni senza produrre ipotesi nuove sul progetto (utopico) comparato alla pratica (deludente); neppure sfrutta il dibattito dell’ultimo decennio e tuttora vivo, nelle puntualizzazioni, “scoperte” e sondaggi forniti dagli studi di Pasi, Ruffini, De Marinis, Poli, Erbetta e Cambria. Forse tale squilibrio deriva dalla scelta del metodo, che consiste nel riportare semplicemente ampie citazioni degli scritti di Artaud senza svilupparne le implicazioni profonde. Del resto, i titoli antologizzati riguardano diverse opere “secondarie”, a partire dalla traduzione-rifacimento di The Monk, di Lewis e dall’adattamento di Les Cenci. Il libro - definibile allora un’antologia commentata degli Scritti di Artaud - misurato statisticamente presenta infatti il 42% di riproduzioni da edizioni italiane delle Opere; il 10% circa, è costituito da citazioni della critica, il 5% da Note e il 3% dalla Bibliografia dell’autore.

 

 

 


 

di Gianni Poli


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