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Ubaldo Floris

Teorici, teologi e istrioni. Per e contro il teatro nella Francia del Cinque-Seicento.

A cura di Luisa Mulas

Roma, Bulzoni Editore, 2008, pp. 484, euro 30,00
ISBN 978-88-7870-355.1

L’accurata ricognizione degli scritti teatrali (trattati, libelli, opere morali, lettere, opere drammatiche), operata da Ubaldo Floris, significativamente si divide in due parti: “Teatro negato” e “Teatro possibile”, in relazione da un lato alla condanna di certe pratiche attoriali e spettacolari da parte delle autorità religiose e civili della Francia del XVI-XVII secolo, dall’altro alla liceità di certe forme “epurate” di teatro, ammesse purché morali, rispondenti ai canoni di “decoro” che importanti trattatisti enunciarono compiutamente nel periodo preso in esame. Ma ancor più significativamente, la prima parte, quella di opposizione al teatro, è molto più ricca, in termini di pagine e di voci critiche, volte a riprendere la secolare tradizione che individuava nel teatro tout cour una forma sottile, subdola, pericolosa perché affascinante, di distrazione dell’uomo, del fedele, dalla vita virtuosa e dalle pratiche di devozione e carità e che aveva conosciuto nei Padri della Chiesa (Sant’Agostino in primis)  i più alti ed insigni teorici.

La prima parte del volume è dedicata alla minuziosa e ragionata disamina dei pronunciamenti della Chiesa di Parigi nei secoli XII-XVII sul teatro, sulla danza, sulle attività ludiche e, soprattutto (forse il punto più interessante della trattazione) sulla figura dell’attore. Floris analizza gli Statuti Sinodali delle più importanti chiese francesi (da Parigi a Lione) e alcuni decreti vescovili nel periodo preso in considerazione, tutti fermamente contrari alle rappresentazioni pubbliche di histriones, mimi, jongleurs, saltimbanchi e attori girovaghi, colpevoli di portare lascivia e impudicizia nelle regolate vite dei fedeli. Un aspetto importante è dato, in questi testi, dalla condanna della maschera e del travestitismo: elementi etico religiosi, come il timore delle trasgressioni sessuali, si legano indissolubilmente ad altri fattori, politico-sociali, come la confusione tra gli ordini sociali (la distinzione tra l’uomo e la donna, tra il signore e il reietto, tra gli appartenenti ai diversi ordini sociali, si basava prima di tutto su una caratteristica esteriore e visibile, come l’abito). Il rovesciamento burlesco e carnevalesco portava con sé quello, pericoloso, delle gerarchie sociali; per questo era fieramente avversato. Così come venivano processati coloro che andavano contro natura, sodomiti ed ermafroditi, colpevoli di turbare l’equilibrio sociale e morale della società.

Il capitolo dedicato alla figura dell’attore è particolarmente interessante, perché consente di avere un quadro esaustivo della considerazione che godevano in Francia a quel tempo i commedianti e i farceurs. L’attore veniva bollato come infame (secondo un’atavica e secolare condanna), portava con sé un discredito non solo morale (era colui che invadeva il “tempo del sacro” e il “tempo del lavoro”, generando confusione tra due categorie, direi medievali, della vita del cittadino-fedele), ma anche un’emarginazione formale e giuridica (non poteva ambire a cariche pubbliche); esisteva per lui la possibilità di riabilitazione, che doveva passare attraverso le “Lettres Patentes” del Re, ratificata, cioè, dal potere politico. L’opposizione al teatro da parte degli ambienti calvinisti, che trovarono un deciso esponente nel teologo André Rivet, con la sua Instruction Chrestienne touchant les spectacles publics (1639), si basava sulla considerazione che il mestiere dell’attore era non solo spiritualmente ma anche materialmente  improduttivo e che si potesse fare miglior uso dei termini tempo-denaro-lavoro. Si giunge, effettivamente, ad un paradosso: una società, come quella francese del Seicento, che ama il teatro, non riconosce l’attore se non nella finzione, gli nega l’esistenza  come soggetto sociale. L’eco delle parole di Sant’Agostino, emblematiche in questo senso, è viva e attuale ancora nel XVII secolo inoltrato: “donare quippe res suas histrionibus vitium est immane, non virtus” (In Epistulam Joannis ad Parthos Tractatus).

Ricche si presentano le sezioni dedicate all’analisi dei documenti di prima mano, come il divieto da parte del Procuratore Generale di Parigi del mistero del Vieux Testament, che i Confrères de la Passion intendevano realizzare nel 1542. Ne risulta che, oltre alla condanna “ideologica” da parte delle autorità religiosa e civile, ben altre motivazioni furono alla base di quel pronunciamento: lo spreco di denaro, prima di tutto, speso per l’allestimento, la diminuizione delle elemosine e, non in ultimo, il rischio di intrusioni nei misteri di suggestioni protestanti e di elementi apocrifi. Occorrerà l’intervento del re Francesco I, con una lettre patente datata 18 dicembre 1541, per consentire la ripresa dell’allestimento. Importante anche l’episodio, indagato con minuziosa precisione dall’autore, di una querelle tra gesuiti e calvinisti, svoltasi tra Lione e Ginevra nei primissimi anni del Seicento. I gesuiti, dopo la loro espulsione dalla Francia nel 1594, riammessi da Enrico IV nel 1603, seguendo una consuetudine prevista dalla Ratio Studiorum, organizzarono all’interno del loro collegio una rappresentazione teatrale, Le jugement universel. Un anonimo autore di fede calvinista nel 1607, pubblicando un Recit che condannava pubblicamente quello spettacolo, aprì una guerra condotta  a suon di libelli e pamphlets, tra calvinisti e cattolici. Oltre ad accuse di carattere tecnico (troppi espedienti scenografici e troppi denari spesi per questo allestimento, che doveva essere a luoghi deputati), i calvinisti ne mossero una che ci riporta al carattere infamante, per gli attori, di una rappresentazione organizzata a fini di lucro. Il volume contiene anche un’accurata disamina circa l’attribuzione al teologo André Rivet de La Verge au dos des fols, scritto fustigatore del mestiere dell’attore, quasi un compendio delle secolari condanne rivolte dagli ambienti religiosi.

La pars construens riporta il dibattito francese d’inizio XVII secolo sulle forme teatrali accettabili, quelle cioè dotate di verisimiglianza e quindi credibilità, quelle investite da aspetti etico-morali, prima di tutto nei moeurs (caratteri) e sentiments (pensieri) rappresentati sulla scena, fino ad un aspetto tecnico-formale, come il rispetto delle unità di tempo, azione e luogo. Aspetti che si troveranno poi nella ben più famosa querelle du Cid, in seguito al successo dell’omonima opera drammatica di Corneille. Teorici come Chapelain, Scudéry (con lo scritto Apologie du Théātre), La Mesnardière puntarono l’attenzione sul carattere morale che il teatro doveva avere: l’azione drammatica poteva modificare lo stato psicologico ed emotivo dello spettatore, orientandolo verso comportamenti positivi (attraverso, ad esempio, la regola della “giustizia distributiva”, secondo cui ogni malvagità deve essere punita). Questo moto dell’animo è reso possibile dall’actio dell’attore, che sintetizza in sé, appropriandosene, le passioni del personaggio di cui interpreta il ruolo: tanto più li sentirà propri, quanto più riuscirà a commuovere e, quindi, ad edificare lo spettatore.  Una capacità empatica che può essere sollecitata, oltre che dall’attore, anche da un testo drammatico “persuasivo” e altamente morale nei suoi contenuti.

Un dibattito, quello riportato criticamente nel libro di Ubaldo Floris, che consente da una parte di vedere come molte idee otto-novecentesche sul teatro abbiano una traccia nel secolo XVII, e dall’altra di aggiungere in modo estremamente accurato alcuni dettagli allo studio delle vite degli attori in Francia, all’inizio dell’età moderna. Lo studio si pone come un esaustivo e ragionato compendio di teorie e prassi teatrali, proponendo un accurato metodo di indagine, puntuale, ragionato, preciso nell’incrocio delle fonti, sicuro merito dello studioso recentemente scomparso.

 

di Giacomo Villa


copertina

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