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La favola di Orfeo
Letteratura, immagine, performance
A cura di Angela Maria Andrisano, Paolo Fabbri

Unifepress, Ferrara, 2009, pp. 256.
ISBN 978-88-96463-01-7

«Sono figlia di Terra e di Urano splendente di astri. Celeste è la mia stirpe».

Queste parole, trascritte in una tarda laminetta orfica, racchiudono una potente suggestione sulla figura di Orfeo. L'anima dell'iniziato, per scongiurare l'oblio ed essere accolta nelle schiere dei beati, giunta nell'aldilà, avrebbe dovuto dichiarare la sua divina ascendenza e chiedere di bere alla fonte di Mnemosine. Il mitico cantore, dopo la catabasi, si fa maestro di misteriche verità. E tuttavia, in questa rivelazione sulla natura divina dell'anima riluce, forse, un tratto che è proprio del cantore-artista prima che del maestro del culto. In quanto figura dell'artista creatore, Orfeo può veramente rivelare la divinità dell'animo umano, può mostrare come sia la sua dimensione creativa a renderlo di stirpe celeste. Di più, con una suggestione tutta moderna, potremmo dire che l'Orfeo rivelatore dell'immortalità dell'anima adombri l'originario cantore che dalla sua arte è reso immortale.

Il mito d'Orfeo, inesaurito perché inesauribile nelle sue potenti metafore, è l'argomento di una raccolta di saggi curata da Angela Maria Andrisano e Paolo Fabbri, edita da UnifePress. Il libro si accosta all'eroe, esplorandone la poliedrica presenza nella letteratura, nell'arte e nei generi performativi, dall'antichità al mondo contemporaneo. I diversi saggi mostrano come quell'originaria materia mitica sia rimasta nel tempo attiva e fertile, non sterile mitografia, fissata una volta per tutte, ma mitema sempre vivo, che da ogni sua nuova narrazione trae nuovi sensi.

In ambito letterario, Alessandro Iannucci analizza le prime attestazioni del nome di Orfeo, in relazione a due episodi fondanti della biografia mitica dell'eroe: la sfida con le Sirene, durante la spedizione argonautica, e la catabasi nel regno di Ade, episodio al quale si riallacceranno le pratiche e le dottrine orfiche. A questo proposito Iannucci nota come nelle fonti più antiche sia centrale non tanto l'esito del viaggio e il destino della sposa Euridice, quanto la potenza e la capacità piscagogica e magica della comunicazione poetica.

Il contributo di Leonardo Fiorentini invece scova una possibile valenza comica che il nome di Orfeo assume nell'unico frammento superstite del Lino del commediografo Alessi. In questo caso il nome dell'eroe compare tra gli autori che Lino propone ad un allievo illustre (si tratta niente meno che dello stesso Eracle) ma più incline ad altre fatiche che non a quelle letterarie. L'effetto comico dovuto allo stridente contrasto tra le proposte del maestro e la scelta dell'allievo, ricaduta infine su un libro di cucina, nasconde un ulteriore valore straniante giocato proprio su Orfeo, considerato nel mito fratello o addirittura allievo di Lino e ciononostante presente come autore della sua biblioteca.

Il mito del cantore è oggetto di diverse interpretazioni già a partire dall'antichità: in Orazio ne leggiamo una di impianto storico-razionalista, le cui ascendenze peripatetiche sono mostrate da Giovanni Zago, mentre le diverse sfumature che acquisisce la figura dell'eroe nella colta scrittura di Luciano di Samosata, riecheggiante una lunga tradizione letteraria, sono messe in evidenza dal saggio di Angela Maria Andrisano.

Assai diffusa è la presenza del cantore nelle arti figurative. Stefano Bruni, analizzando la pittura vascolare degli Etruschi, indaga l'organologia degli strumenti a corde della popolazione tirrenica e traccia un quadro degli influssi che le pratiche musicali greche ebbero sulla cultura delle classi aristocratiche dell'Etruria. Ada Patrizia Fiorillo, invece, censisce la presenza di Orfeo nelle arte tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, in relazione al concetto di classicismo ed alla sua declinazione operata dagli artisti in quel periodo, ed evidenzia come il senso del loro accostamento al mito fosse, ad un tempo, di allontanamento dalle irrequietezze esistenziali ma anche di una introspezione capace di fare emergere una vitalità primigenia ed originaria.

Ma cosa canta Orfeo? E come canta? Questa è la domanda che si pone Dino Buzzati nel suo Poema a fumetti. E nell'indagine di Franco Longoni è messo in risalto come per lo stesso Buzzati più che nell'aver vinto l'ineluttabilità della morte, la qualità del canto di Orfeo, e perciò il suo vero potere, sta nell'aver ridato passioni ed emozioni a chi, l'abitante dell'Averno, inesorabilmente non può più provarne. Questa dimensione, propriamente orfica, di elusione della morte entra nelle prime riflessioni sul cinema

per quell'illusione di sospensione del tempo che le immagini in movimento evocano. Il contributo di Alberto Boschi mette in luce il riferimento al cantore tracio nella teoresi delle origini nonché la descrizione in termini di catabasi che i primi spettatori fanno della loro discesa nel mondo delle ombre cinematografiche. D'altra parte si rileva come le rivisitazioni al cinema di quel mito si sono risolte nella stragrande maggioranza dei casi in attualizzazioni e decontestualizzazioni.

E proprio di decontestualizzazioni lamenta il saggio di Alessandro Roccatagliati, a proposito di alcune recenti messe in scena – passiamo così all'ambito performativo – dell'Orfeo di Gluck. Lo studioso nota come le invenzioni registiche nell'allestimento di un'opera rischiano talvolta di violentarla e di piegarla ad una visione eterodiretta rispetto ai suoi dati testuali e musicali. La questione tuttavia riguarda in generale il peso sempre crescente che la regia va assumendo negli allestimenti operistici, che, se ha il pregio di avvicinare il grande pubblico al genere, rischia di creare una frattura tra la dimensione performativa e quella musicale dell'opera.

Delle multiformi incarnazioni di Orfeo nel teatro musicale si occupa invece Paolo Fabbri, che mostra con una carrellata quante e quali metamorfosi, a volte anche spregiudicate, ha subito ed ispirato il mito con la sua persistenza ma anche con la sua plasmabilità.

Inevitabile che tale materia si offra ad un impasto drammaturgico lievitato dalle sensibilità degli artisti. Così Orfeo nella scrittura di Jean Cocteau si rarefà in un atmosfera inquietante e misteriosa, in un dispositivo scenico assolutamente rigoroso e per questo reso immateriale ed impalpabile. L'analisi proposta da Daniele Seragnoli rileva questo procedere quasi per “balzi inconsci, telegrafici”, che, nella messa in scena fatta dai Pitoëff, riesce a rendere sensibile, visibile, dunque teatrale, la metafora poetica. Questo anti-razionalismo dell'Orfeo di Cocteau, questa sua dimensione doppiamente rituale, diventa l'occasione della prima regia di Jerzy Grotowski che, pur lavorando dentro e contro il testo, già si muove verso un teatro come rito (iniziatico).

Anna Colafiglio, infine, approfondisce alcuni aspetti di Onnagata o Il canto di Orfeo di Lindsay Kemp, mettendo in rilievo come l'artista si identifichi nell'eroe e rifletta per suo tramite sul senso della propria arte. Offrendo la vita, quale martire contemporaneo, l'artista acquista la sua vittoria sulla morte e sull'oblio.

La favola di Orfeo, in definitiva, non pretendendo di esaurire la presenza multiforme del cantore tracio nelle arti, vi si accosta con indagini che, scoprendo nuovi indizi o riconsiderando quelli già noti, mostrano la fecondità ininterrotta di quel mito.

 

 

di Giuseppe Lipani


La favola di Orfeo

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