Franco Ruffini dedica i tre saggi del suo nuovo libro Craig, Grotowski, Artaud a questi tre grandi esponenti del teatro novecentesco, che hanno creato quello che lui definisce «teatro in stato dinvenzione».
Il Novecento è stato un secolo di innovazione teatrale sia per quanto riguarda laspetto produttivo e commerciale, sia per quanto concerne le teorie legate allarte dellattore ed alla nascita della regia. Ruffini si sofferma sull«Arte del Teatro» di Craig, sul Teatro Povero di Grotowski e sul «Corpo senzorgani» di Artaud. In tutti e tre i casi pone in evidenza i concetti di azione, movimento e processo nel lavoro interpretativo come elementi che non possono essere insegnati allattore, ma piuttosto devono essere da esso percepiti e interiorizzati attraverso le proprie esperienze personali o liberandosi o immergendosi nelle proprie emozioni.
Partendo da queste premesse lautore si propone di trovare un filo rosso che colleghi le loro differenti esperienze artistiche, considerandoli tre «utopisti» del teatro, la cui visione, liberata dal concetto tradizionale di rappresentazione, inizia da uno «spazio pulito» risultato di una «grande esplosione» che ha demolito tutto ciò che cera prima e ha permesso la costruzione del «nuovo teatro».
Nel primo saggio dedicato a Craig Ruffini valuta gli effetti che lincontro con la danza di Isadora Duncan ha avuto sullo sviluppo della sua teoria teatrale, ponendo in rilievo limportanza del movimento «divino» acquisito dallattore «semplificato», ossia spogliato delle proprie emozioni personali e divenuto intermediario tra uomo e Natura/Dio.
Nel secondo saggio particolare attenzione viene posta al lavoro che Grotowski svolse con il suo attore Cieslak per lo spettacolo Il Principe costante; si tratta di un «processo interiore» che viene praticamente omesso dal maestro nel suo libro sull«allenamento dellattore» poiché Grotowski riteneva fosse qualcosa che non poteva essere insegnato, ma solo «trasmesso» attraverso un percorso fatto insieme da regista e attore.
Nellultimo saggio Ruffini ricostruisce la biografia clinica di Artaud, rilevando quanto la sua malattia, e soprattutto quello che lui stesso chiamava «delirio», fosse fondamentale nella sua elaborazione del corpo teatrale: lorganismo non è altro che uninvenzione dei medici, la società è solo una «facciata», qualcosa di costruito da dover demolire per accedere alla vita e alla libertà.
Mariagiovanna Grifi
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