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Franco Perrelli

Strindberg la scrittura e la scena


Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 169, euro 19.00
ISBN 88 6087 205 7

Fare il punto sull'imponente figura e sulla sterminata produzione scritta di August Strindberg, ovvero uno dei padri (insieme a Ibsen e a Cechov) del dramma moderno, è impresa assai ardua. Meritevole diventa allora la raccolta di saggi che lo specialista Franco Perrelli ha dedicato alla figura del drammaturgo e uomo di teatro svedese, e che indaga in maniera privilegiata sia il suo rapporto con la drammaturgia che con la prassi teatrale. Guardando a questi due aspetti i sette capitoli che compongono il libro si possono infatti raggruppare in due macrosezioni: nella prima (cap. I-III) Perrelli descrive con acume e meticolosità il fitto incrocio di rapporti e influenze tra la scrittura di Strindberg e la temperie culturale del suo tempo, quella a cavallo tra la seconda metà dell'Ottocento e i primi anni del Novecento; nella seconda (cap. IV-VII) invece il drammaturgo ci viene presentato in rapporto alla prassi teatrale propriamente detta, quella degli impresari, delle compagnie, dei teatri e della critica.

Una schematizzazione quasi obbligatoria, verrebbe da dire, se si pensa che Strindberg si considerava un artista totale, soprattutto nella scrittura, sia essa da intendere come letteraria o drammaturgica. Irrompe con lui, in ambedue gli ambiti, un soggettivismo tipicamente moderno, una tensione verso la sperimentazione continua, vorticosa e senza fine, aperta e nichilista. Non è infatti un caso che il suo orizzonte culturale si formi e si irrobustisca con solo con Baudelaire, Kierkegaard e Swedenborg, ma anche con Balzac, Hugo e Andersen, in un percorso che passa dalla critica sociale al misticismo. «Amleto: quando si risveglia alla coscienza e vede che ogni cosa è menzogna, deve di conseguenza atteggiarsi a sciocco. Le belle arti: tutto un malinteso. Le scienze: tutto un errore. Le religioni: una follia qua e là» scrive infatti il drammaturgo, riflettendo sul ruolo dell'artista come «coscienzioso tecnico di laboratorio», che opera partendo dalle proprie emozioni e percezioni per cogliere la realtà ingrandita e riscattarla ribaltandola. E come sarà poi per le avanguardie, questa inquietudine sperimentale si accompagna inevitabilmente a quella dello stile e delle forme.

I temi dello smascheramento, di una pedagogia dissacrante (si veda lo straordinario testo di Sonata di spettri) e del carcere-inferno (la dimensione squisitamente indoor del teatro borghese del secondo Ottocento) lo avvicinano a Schopenhauer, ma anche all'amato-odiato “rivale” Ibsen, per quella costante ricerca del tragico nella modernità, che li pone entrambi in polemica con l'estetica romantica, con una personale rilettura del classicismo. Siamo insomma più dalle parti di Nietzsche che di Zola: una visione dionisiaca dell'esistenza e dell'arte lontana dal naturalismo propriamente detto. La coscienza della difficile sopravvivenza del tragico nel mondo moderno si collega infatti alla necessità per l'uomo e per il teatro di pensare sempre il Destino in termini conflittuali.

A proposito delle influenze di Ibsen e Nietzsche sull'orizzonte culturale e sulla scrittura di Strindberg, Perrelli non ha dubbi: ci sono e sono fecondissime. Basta pensare, ad esempio, ai personaggi femminili descritti dal misogino drammaturgo nelle sue opere. Vi si percepisce la volontà di ritornare, ad esempio, alla scrittura ibseniana più autentica, quella più spirituale, che non legge dietro il personaggio di Nora (Casa di bambola) il simbolo dell'emancipazione femminile, bensì la pericolosità di un'arrestabile guerra psico-antropologica fra sessi: ancora una volta si tratta di allontanarsi dall'ideale romantico e di proiettarsi nella complessità del moderno, dove il mito di Nietzsche, della sua tensione allo stravolgimento esoterico e purissimo della realtà, diventa un paradigma folle e debordante pressoché obbligatorio, anche nella vita.

Se dunque la prima parte del libro privilegia la descrizione di questo quadro di riferimento storico-culturale, nella seconda Perrelli ci mette in contatto con uno Strindberg totalmente immerso nella vita e nella prassi teatrale del suo tempo. La sua attività di critico (tra il 1873-74 e il 1876), ad esempio, offre degli importanti spunti per capire non solo i gusti del drammaturgo, ma anche per trovare in essi dei riferimenti utili alla successiva evoluzione della sua scrittura. La sua critica tocca infatti la globalità del fenomeno teatrale, spaziando dalla recitazione degli attori alla drammaturgia, alla politica culturale dei sei teatri della Stoccolma dell'epoca, fino alle cronache del suo viaggio di tre settimane a Parigi nel 1876, dove scopre gli impressionisti, ammira Sarah Bernhardt e viene colpito più dalla recitazione degli attori che non dai drammi rappresentati (è il caso, ad esempio, di Les Danicheff di Pierre Newsky, allestito al Teatro dell'Odéon), cogliendo acutamente alcuni elementi di modernità che, già presenti sulle scene francesi degli anni Settanta, che di lì a poco Antoine avrebbe sviluppato.

Il V e il VI capitolo, dedicati infine alla vita teatrale della Stoccolma a cavallo tra Otto e Novecento e in particolare alla sua attività di drammaturgo e impresario al Teatro Intimo, costituiscono forse la parte più interessante del libro. Perrelli infatti ricostruisce prima la dimensione di una Stoccolma “capitale dello spettacolo”, con i suoi antagonisti storici: i Teatri Reali, da un lato, e lo Svenska Teatern, dall'altro, con tutte le vicende legate sia all'evoluzione politico-istituzionale del regno svedese, sia alle ricostruzioni architettoniche degli edifici teatrali. In questo quadro si innesta ad esempio il lungo e conflittuale rapporto artistico ed economico che legò Strindberg ad Albert Ranft, un ex-attore che divenne in poco tempo una sorta di monopolista dei teatri della capitale svedese, grazie al fiuto imprenditoriale e all'acume per i gusti del pubblico («il principe dell'operetta» - lo chiamava con disprezzo Strindberg). Nei piccoli locali del Teatro Intimo, gestito dallo stesso Strindberg e inserito comunque, sebbene in una condizione di semi-indipendenza, nel sistema di Ranft, il drammaturgo poté permettersi di azzardare gran parte di quelle sperimentazioni nelle pratiche di messinscena che hanno reso famoso il suo lavoro.

Tra queste c'è da registrare un interesse di Strindberg verso le nuove tecnologie di riproduzione del reale come la fotografia, le lanterne magiche e soprattutto il cinematografo Lumière, che nei primi anni del Novecento, in Svezia, come in tutto il mondo, conobbe un'esplosione di pubblico e una moltiplicazione di sale senza precedenti, a danno proprio dei teatri. E fu proprio quando divenne direttore e finanziatore del Teatro Intimo che il drammaturgo scrisse: «Questa moderna iniziativa chiamata cinema è nello spirito dei tempi e ha preso un incredibile slancio. E' democratica; i posti sono uguali per tutti, il prezzo unico, niente guardaroba. E a un costo estremamente basso, si può cogliere il proprio momento di svago durante la giornata; una piccola distrazione, persino un frammento di cronaca o un puro divertimento. Dal momento che si può imparare da ogni cosa, il Teatro Intimo ha mutuato dal cinema due principi: posti uguali per tutti e, in certi giorni, orari adeguati che si avvicinano all'ora di andare al letto». Quando si dice lungimiranza: nel 1911 fu la coppia di pionieri Gustaf e Anna Hofman, finanziati da Petter Nilsson, un ex-mercante di cavalli, a realizzare i primi film strindberghiani mai prodotti: La signorina Julie e Il padre, i due più grandi successi del Teatro Intimo, che furono riproposti per il cinema con il cast più vicino possibile a quegli allestimenti, avvalendosi dei consigli dello stesso Strindberg.



 

di Marco Luceri


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