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Toni Servillo, Gianfranco Capitta

Interpretazione e creatività


Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 130, euro 10.00
ISBN 978-88-420-8723-6
«Se mi chiedono "che cosa fai nella vita?", io rispondo "recito, mi sento un attore". La cosa che faccio di più durante l'anno è recitare, ed è il mestiere nel quale mi riconosco. E quando qualcuno mi chiede che cosa sia la creatività, io non so rispondere. Perché non sono un creativo, e non mi sono mai pensato in termini creativi, perché mi ritengo fondamentalmente un interprete». Con queste battute (che racchiudono forse già il senso del lavoro e gli orizzonti professionali di uno dei più importanti attori e registi italiani di oggi) inizia il breve libro-intervista che Francesco Capitta ha scritto conversando con Toni Servillo sui tanti aspetti della sua carriera, ancora in pieno sviluppo.

Un percorso creativo (nonostante le parole dello stesso attore adombrino il contrario) che lo ha visto come uno dei protagonisti della scena italiana sin dagli anni Ottanta, quando, in una terra bellissima e falcidiata come la Campania, aveva dato vita al Teatro Studio di Caserta, nel quale confluirono poi le due più importanti scuole del teatro sperimentale napoletano, i Teatri Uniti di Mario Martone e il Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller. Tanto teatro, certo, sia di prosa che musicale, ma anche tanto cinema, quello di Paolo Sorrentino soprattutto (L'uomo in più, Le conseguenze dell'amore e Il divo), con qualche scorribanda tra gli esordienti (La ragazza del lago di Andrea Molaioli), che ha fatto conoscere la sua maschera ineluttabile al grande pubblico, anche a quello che frequenta poco i teatri.

Un bel paradosso questo (beffardo forse come quello antico di Diderot) per uno che dichiara di non sentirsi poi così a proprio agio nel cinema. Perché? E' presto detto: «Il cinema è dei registi, il teatro è degli attori». Per cui, per uno che si sente ontologicamente attore, lo sguardo deve necessariamente rivolgersi altrove, dove, in un certo senso, si può dominare la scena: il teatro, appunto. Infatti nel libro, nonostante Capitta cerchi più volte di riportare i ragionamenti di Servillo sul cinema, l'attore non va molto oltre una semplice questione di metodo. Egli dice infatti che ogni volta che si accinge a girare un film manda a memoria l'intera parte, come forma di protezione nei confronti del frammentario e invasivo lavoro del regista sul set.

La cosa non dovrebbe sembrare troppo strana, dunque, soprattutto alla luce di quello che Capitta scrive giustamente all'inizio e cioè che Servillo si è sempre mosso all'interno di dimensioni teatrali che rispecchiano l'antica struttura "capocomicale", quella in cui il gruppo conta più del singolo e dove la visione collettiva e il lavoro sul testo servono non solo come percorso morale sulla propria professionalità di attore, ma come strumento per capire l'epoca in cui essi sono stati prodotti. Del resto (e in questo il libro ci riesce bene) basta guardare il repertorio di Servillo per capire come la sua attenzione sia rivolta proprio a questa dimensione storica e civile del teatro: Goldoni e il Settecento (soprattutto la Trilogia della villeggiatura), Eduardo (Sabato, domenica e lunedì) e il Novecento lontano dalle avanguardie. Due drammaturgie, cioè, legate indissolubilmente alla propria contemporaneità e allo stesso modo scritte per gli attori: «Mi interessano i testi, mi interessa il linguaggio, mi piace raccontare un paese che si trasforma e che cambia». Sull'Ottocento, il secolo del grande attore, Servillo, coerentemente, glissa.

Il libro getta infine una luce sugli interessi musicali dell'attore-regista: «Credo che qualsiasi regista di prosa, come qualsiasi attore (questo lo diceva molto più autorevolmente di me Mejerchol'd) debba conoscere profondamente la musica e i meccanismi che sovraintendono a una drammaturgia di carattere musicale». E' per questo che nelle sue regie liriche Servillo cerca, al contrario di ciò che accade in innumerevoli allestimenti contemporanei, di far prima ascoltare la musica e solo in seguito farla vedere: «Il vero problema è che bisogna trasmettere il sapere e il sapere dell'opera lirica è legato al testo musicale». Parola di attore.

Marco Luceri


Copertina del libro

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