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L. Da Porto, W. Shakespeare, G. Keller

Romeo e Giulietta. Variazioni sul mito

A cura di Anna Rosa Azzone Zweifel

Venezia, Marsilio, 2008, pp. 273, 8,40 euro
ISBN 978-88-317-9386-5

Giovani amanti infelici sconfitti dalla morte ricorrono da sempre nelle vicende del genere umano. La crudeltà dei loro destini animarono e animano l’immaginario con inquietanti visioni, che diventano punto di partenza per la creatività di scrittori e artisti. La trasformazione dell’episodio di cronaca nera in opera letteraria o teatrale non approda automaticamente nel mito. Servono altri passaggi linguistici e metamorfosi dei personaggi, come dimostrano Romeo e Giulietta, assunti a simbolo di tragici innamorati. Lungo questo percorso si orientano i criteri adottati da Anna Rosa Azzone Zweifel per la scelta dei testi raccolti nel volume Romeo e Giulietta, che orientano l’attenzione «al diramarsi dei percorsi dell’invenzione e alle metamorfosi che la vicenda dei giovani innamorati subisce trascorrendo nel tempo e nello spazio. Fino ad arrivare a Shakespeare e con Shakespeare entrare nel mito».

Nell’Introduzione sono puntualmente ricordati i precedenti letterari classici, le storie d’amore e morte di Ero e Leandro e di  Piramo e  Tisbe narrate nelle Metamorfosi di Ovidio, e di età medievale, con la citazione dantesca (Purgatorio, VI-105) relativa al nome dei due casati nemici, i Capuleti e i Montecchi. Non si tratta di archetipi seminali, sono pallide tracce destinate a svanire nel nulla per molto tempo. Solamente a partire dal XVI secolo il conflitto tra le due famiglie veronesi converge nel destino dei figli.

Il volume edito da Marsilio si apre con la pubblicazione della novella La Giulietta di Luigi Da Porto. Lo scrittore vicentino, che scrisse il suo capolavoro nel 1524 e lo pubblicò in forma anonima probabilmente nel 1531 a Venezia, interpretò la tragedia amorosa come esempio dei pericoli e del danno mortale provocati da Eros e cucì una trama non diversa da quella che avrebbe elaborato Shakespeare fra il 1594 e il ’97. Tuttavia il Bardo non ebbe modo di leggere il testo di Da Porto. Entrò invece in contatto con la traduzione in francese della novella La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti che l’uno di veleno e l’altro di dolore morirono, con varii accidenti di Matteo Bandello (1534) ad opera di Pierre Boaistuau e inserita nelle Histories tragiques extraites des oeuvres italiennes de Bandel. Nel 1562 la raccolta del francese sbarcò in Inghilterra e fu tradotta in versi da Arthur Brooke e in prosa da William Paintner. La fonte unica e diretta per Shakespeare è stata individuata in un’altra opera di Brooke, il poema di 3020 versi The Tragicall Historye of Romeus ad Juliet.

La proiezione nella dimensione del mito dell’intransigenza della passione e della risolutezza dell’incontro con la morte, elementi su cui facevano leva le narrazioni anteriori, avviene nel momento in cui questi filtrano nella parola e si conformano in una complessità linguistica. La parola si pone al centro del dramma e diventa essa stessa tragedia. «Il linguaggio e i rapporti dei personaggi con il linguaggio» costituiscono “il filo rosso” dell’analisi testuale condotta dalla Azzone Zweifel. In un impianto narrativo giocato sulla contrapposizione di buio e luce assieme alla morte e alla vita, la parola possiede la capacità magica di trasformare la realtà e di spalancare le porte dell’infinito, per poi precipitare negli abissi dei crudeli destini decisi dei padri per la loro disumana difesa dell’onore.

Di conseguenza Romeo e Giulietta shakesperiana diventa  il dramma di un conflitto generazionale, dal quale si enucleano rotture insanabili, in primo luogo tra il sentimento e la legge, il desiderio umano e il sistema sociale.

È questa la strada seguita anche da Gottfried Keller in Romeo e Giulietta nel villaggio, novella presente nel volume la gente di Selduryla, e ispirata ad un fatto di cronaca successo nel 1847 avvenuto in un piccolo paese vicino a Lipsia, che riferiva del suicidio di una coppia di giovani innamorati di misere condizioni sociali e ostacolati dalle famiglie. L’opera dello scrittore svizzero, che chiude il libro Marsilio, cala l’episodio in un contesto realistico e umile e, allontanandosi dal modello shakesperiano, sposta l’attenzione sulle cause della tragedia, ovvero sull’odio viscerale tra i padri coinvolti nella contesa di un campo abbandonato, che poi determinerà la rovina per le due famiglie. Il mondo contadino mostra il suo volto crudele e aggressivo e genera esiti di vita sconvolgenti: il padre di Sali (Romeo), ormai sul lastrico, trasforma la sua casa in un covo di briganti, il padre di Vrenchen (Giulietta) impazzisce e muore in un manicomio. A differenza degli amanti shakesperiani, quelli kelleriani si scambiano poche e grezze parole d’amore. A loro manca la catarsi, e non avviene nemmeno la conciliazione finale tra i padri. La loro morte succede, disperata e silenziosa, «nella luce plumbea di un’alba livida che fa trasparire i contorni di un paesaggio stupendo, mentre due pallide figure strettamente abbracciate, si lasciano cadere da quella massa scura [la barca] nelle fredde acque».


Massimo Bertoldi


copertina

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