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Marcello Mastroianni attore di teatro

A cura di Roberto Chiesi

Genova-Bologna, Le mani - Ed. della Cineteca, 2006, pp. 205, € 28.00
ISBN 88-8012-380-7
Dobbiamo all’impegno del Centro Mastroianni, del Museo dell’Attore di Genova e della Cineteca di Bologna, oltre che a quello del curatore Roberto Chiesi, la pubblicazione del bel volume, uscito da poco nelle librerie, sulla carriera teatrale di Marcello Mastroianni. La fama di quello che ancora oggi, a più di dieci anni dalla morte, è l’attore italiano più famoso, blasonato, ammirato e imitato nel mondo è legata, lo sappiamo, soprattutto all’attività cinematografica, che ne ha fatto un’icona della storia del nostro cinema. Meno conosciuto è invece il lungo, importantissimo cammino di formazione che cominciò e si consolidò in teatro, una parabola artistica di assoluto spessore che contribuì in maniera fondamentale alla crescita delle capacità espressive e professionali di Mastroianni, che egli stesso non esitò poi a sfruttare nei film di Fellini, Antonioni, Germi, De Sica, Petri, Ferreri, Scola ecc.

Il libro ripercorre le tappe principali di questo cammino: dagli esordi nelle recite parrocchiali, all’apprendistato con Luchino Visconti fino al sodalizio con Peter Brook e Nikita Mikhalkov, ogni spettacolo ha il suo corredo di fotografie, di crediti e una corposa, utilissima rassegna stampa da cui è possibile tracciare un profilo netto non solo delle singole interpretazioni di Mastroianni, ma anche l’analisi degli spettacoli tout court (tra le varie firme citate: Silvio D’Amico, Luciano Lucignani, Vito Pandolfi, Roland Barthes, Gianni Rondolino, Emilio Cecchi). Inserita in un discorso volutamente più ampio, la vicenda artistica del Mastroianni attore di teatro si inserisce perciò a pieno titolo nella storia del teatro italiano del secondo Novecento, a segnare un’esperienza che lo stesso attore non finì mai, durante la sua vita, di tratteggiare in termini di religiosa ammirazione: "Attore è un anagramma di teatro: per uno che fa il mio mestiere, potrebbe essere una piccola, commovente consapevolezza".

E di questa consapevolezza Mastroianni ne era giustamente fiero, lui che, come dichiarava egli stesso, in teatro ci entrò dalla "porta d’oro": è infatti il sodalizio con Visconti che occupa la parte centrale del libro. Basta dare un rapido sguardo ai titoli degli spettacoli viscontiani a cui Mastroianni partecipò (con ruoli gradualmente sempre più prestigiosi e importanti) per capire la profonda unicità di un magistero, quello del regista milanese, che tanto ha dato all’evoluzione del teatro italiano non solo in termini di rivoluzione registica, ma anche di vera e propria pedagogia dell’attore. Nelle messinscene di Un tram che si chiama desiderio (1948, ripreso poi nel 1951), Oreste (1949), Troilo e Cressida (1949), Morte di un commesso viaggiatore (1951, ripreso poi nel 1956), Tre sorelle (1952), Zio Vanja (1955), fino alla leggendaria Locandiera (1956) Visconti impone a Mastroianni, come agli altri, di dimenticare le guitterie, i protagonismi e i cascami da teatro all’antica: l’attore deve essere in grado di recitare qualsiasi personaggio (e in effetti Mastroianni cambierà ruolo all’interno dello stesso dramma come nel caso di Mitch/Kowalski in Un tram chiamato desiderio e di Giocondo/Biff in Morte di un commesso viaggiatore), il sentimento fisico del corpo è dettato dall’esasperato realismo nella messinscena del nuovo repertorio drammaturgico americano (Arthur Miller e Tennesse Williams), ma riguarda anche i classici europei  come Cechov e Goldoni. E sulla celebre "tirannia" di Visconti è lo stesso attore a ribadirne la validità: "Visconti al cinema lasciava l’attore sufficientemente libero, ma al teatro anche un battito di ciglia, era lui che lo suggeriva, durante le prove recitava tutti i ruoli…".

Sempre sul metodo di recitazione il libro riporta spesso le riflessioni dello stesso Mastroianni. Sul rapporto tra teatro e cinema: "il teatro chiede una disciplina, una religiosità, arriverei a dire, che nel cinema non esiste. Non parlo di stile di recitazione, dove pure qualcosa cambia: nel cinema è l’occhio che ha grande importanza, il primo piano; mentre nel teatro è la voce: non si recita con tutto il corpo, a cinema; al teatro sì. Nel cinema si è quasi sempre tagliati sopra l’ombelico, e questo a me dispiace, perché il corpo ha una funzione precisa, esprime l’atteggiamento di un personaggio, anche uno stato d’animo […]. Il teatro invece è una specie di tempio, un tempio dove non entra mai il sole: Si lavora sempre con poca luce, nel silenzio più assoluto; il testo va rispettato nelle sue virgole, va approfondito, perché tutto è nella parola". Sul Paradosso di Diderot: "Cervello e sangue freddo fanno il grande attore. […] Una volta fuori dal set o dal palcoscenico, l’attore si cambia, mette da parte i dolori o le gioie del personaggio che ha interpretato. In realtà è solo il pubblico che ha provato queste emozioni. L’attore, come ho detto tante volte è un bugiardone che si è agitato, ma in realtà… sì, sta provando qualcosa, ma in realtà senza provare niente. Altrimenti il suo mestiere lo renderebbe l’uomo più infelice del mondo, no? Come si possono ogni volta vivere i dolori, i drammi, e poi trascinarseli dietro?"; "Credo che ci debba essere un distacco tra l’attore e il personaggio che interpreta. Anzi, bisogna che ci sia un occhio che ammicca ironico, come a dire: «Oh, non la menare tanto, ricorda che si sta facendo una recita, non è che stai vivendo questo personaggio». E di ciò se ne accorse un osservatore acuto come Miller: "Gli era estranea l’idea, tipicamente americana, secondo cui l’attore deve rapportare strettamente la sua personalità al personaggio".

Su questo concetto della verità varrebbero forse, come coup de scène , le stesse parole dello stesso Mastroianni: "La verità per un attore, è il teatro, la verità è il pericolo. Quando si entra in scena, e si vede il pubblico davanti a sé, si ha l’impressione di arrivare in una casa dove c’è una festa senza essere sicuri di essere stati invitati". Sembra Cechov.

Marco Luceri


Copertina del libro

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