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Il castello di Elsinore
semestrale di teatro

anno XIX, 54, 2006 e anno XX, 55, 2007
ISSN 0394-9389; 0394-9389


Gli ultimi due numeri di «Il castello di Elsinore» sono profondamente legati, in quanto sulle loro pagine si svolge un interessante dibattito sullo stato degli studi sul teatro, a circa quarant’anni dall'attivazione delle prime cattedre nelle Università italiane.

L'inchiesta è aperta da un intervento di Roberto Alonge che, dopo aver riconosciuto in Cesare Molinari, Ferruccio Marotti e Ludovico Zorzi i padri fondatori della materia, indica nella filologia pirandelliana di Sandro d'Amico il modello del rapporto fra scavo filologico e analisi dei documenti. La complementarità dei due aspetti, analisi del testo drammatico e analisi dello spettacolo, rappresenta infatti per Alonge la condizione necessaria per la scientificità degli studi storico-teatrali e di questo ci fornisce un sintetica dimostrazione: per cogliere pienamente tutti i risvolti della spettacolarità ibseniana bisogna partire dal testo, rifacendone, se del caso, la traduzione. La corretta applicazione delle metodologie di ricerca non è tuttavia sufficiente a garantire il raggiungimento dei risultati: prendendo ad esempio un saggio contenuto nel programma di sala della Turandot di Puccini recentemente allestita da Ronconi al Teatro Regio di Torino, Alonge non si limita a segnalare le imprecisioni e le forzature dell'«Anonimo» autore, ma vuole intendere che i migliori contributi critici non sono mai neutri e si sostanziano sempre di spunti personali e autobiografici. Dopo gli esempi e le dimostrazioni, giunge il momento di fare i conti con la situazione attuale e con le prospettive della materia: Alonge si scaglia contro la scarsa qualità delle produzioni della "giovane" generazione di studiosi, accusandola di sciatteria, opportunismo o peggio ancora di plagio, addebitando le colpe a Internet e alla perdita del senso della proprietà privata delle opere intellettuali. L'ultimo elemento di discussione che ci viene offerto, forse il più fondato e di sicuro il più inquietante, è l'appiattimento sulla contemporaneità, che spesso non si manifesta come rivalutazione del Novecento ma solo come perdita del senso storico della disciplina.


Il dibattito entra nel vivo con la trascrizione di una tavola rotonda che si è tenuta a Mantova nel settembre 2006, alla quale hanno partecipato Luigi Allegri, Luciano Bottoni, Siro Ferrone, Sara Mamone e Annamaria Testaverde. Al di là dell'eterogeneità degli interventi, comune è l'individuazione della natura meticcia e di confine della storia dello spettacolo, senza il riconoscimento della quale ogni rivendicazione di autonomia rischia di trasformarsi in un ridimensionamento della complessità della disciplina. Strettamente legato ai temi della tavola rotonda mantovana è il contributo di Daniele Seragnoli, che ritorna sul problema della perdita del senso della storia, sottolineando come la parcellizzazione dei saperi sia il pericolo più grande per una disciplina che si fonda sulla valorizzazione della complessità e sullo studio degli oggetti culturali come prodotti del contesto sociale e civile.


La lettera di Ines Aliverti tratta dei rischi e delle opportunità derivanti dalla marginalizzazione della cultura umanistica all'interno delle Università: per le discipline teatrali, la pluralità può essere una garanzia di sopravvivenza e anche di sviluppo, ma solo se accompagnata al rigore e alla consapevolezza dei metodi scientifici. La ricchezza e il fascino degli studi di storia del teatro in quanto settore di confine sono i temi sui quali si muove anche l’intervento di Franco Perrelli. Partendo da un preciso argomento, l'importanza della danza nel teatro del Novecento e la necessità di collegarla alle riflessioni sull'attore, Franco Ruffini giunge a toccare una delle caratteristiche fondamentali della disciplina: la storiografia teatrale si occupa per forza di cose di opere effimere e si pone quindi in un rapporto speciale con il passato, tanto da costituire «un banco di prova per la storiografia tout court».

Di teatro e nuovi media si occupano gli articoli di Anna Maria Monteverdi e di Stefano Locatelli, sebbene con prospettive e risultati alquanto diversi. Monteverdi indaga il vasto e frammentato panorama delle applicazioni sceniche della multimedialità digitale, offrendo una ricca serie di spunti ma, in alcuni casi, perdendo di vista la distinzione tra installazioni artistiche, teatro e supporti tecnologici. Locatelli affronta con rigore scientifico e ampiezza di orizzonti le problematiche relative alla documentazione e alla conservazione del patrimonio teatrale, con particolare attenzione agli strumenti di archiviazione digitale e alle esperienze attive nelle Università italiane.


Oltre al dibattito sullo stato degli studi sul teatro, il numero 54 della rivista ospita due articoli: il saggio di Bent Holm ripercorre le fasi della nascita del teatro moderno in Danimarca e le reazioni che il fenomeno provocò da parte della Chiesa. Nel 1722, a Copenaghen, Ludvig Holberg gettò le prime basi di un progetto di teatro civile e nazionale, con l'ambizione di farne un'istituzione morale e rispettabile, aprendo di fatto un violento dibattito nel quale le autorità religiose danesi, protestanti, assunsero posizioni del tutto analoghe a quelle dei teologi cattolici, accusando il teatro di essere doppiamente pericoloso a causa della sua indissolubile combinazione di illusione e fisicità. In chiusura del volume, Guido Guidorizzi recensisce le due tragedie di Euripide messe in scena la scorsa estate al teatro greco di Siracusa: si tratta di Ecuba, allestita da Massimo Castri e delle Troiane, allestite da Mario Gas.


Il numero 55 è in larga parte dedicato alle regie di Massimo Castri, considerato come il vero e ispirato interprete del dramma borghese di Ibsen, Strindberg e Pirandello. Thea Dellavalle svolge un'approfondita analisi sulle regie di Questa sera si recita a soggetto e di Quando si è Qualcuno, facendo ricorso a taccuini inediti messi a disposizione da Castri e a materiale personalmente raccolto nel corso degli allestimenti in qualità di assistente alla regia. Roberto Alonge evidenzia come le soluzioni registiche adottate da Castri per la messinscena di Spettri siano un contributo fondamentale non solo dal punto di vista scenico ma anche da quello del dibattito critico sull’autore norvegese. Paolo Puppa analizza la regia di Il padre, partendo dall'assunto per cui ogni spettacolo costituisce per Castri «un'ulteriore tappa in una sorta di seduta d'analisi, a proiettarvi incubi privati, magari seguendo il percorso entro il testo del protagonista». Elena Randi torna ancora sulla messinscena del testo di Strindberg per affermare che le scelte registiche di Castri vanno nella direzione di presentare la storia del Capitano come una regressione all'infanzia, nella quale la donna si mostra ostile come amante ma diventa amorevole quando assume il ruolo materno.

Nella seconda parte riprende voce il dibattito sugli studi sul teatro. Gerardo Guccini, che scopriamo essere l'«Anonimo» autore del saggio su Turandot, risponde alle critiche di Alonge citando documenti di supporto alla sua tesi. Annamaria Cascetta svolge una riflessione sullo statuto teorico del testo teatrale e analizza sinteticamente la bibliografia generale degli studi italiani per verificare se e come le acquisizioni metodologiche sul testo trovino riscontro nelle analisi dei testi stessi.

 


Lorenzo Colavecchia

cast indice del volume


 



 
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