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Stefania Parigi

Fisiologia dell'immagine. Il pensiero di Cesare Zavattini


Roma, Bulzoni, 2006, pp. 362, euro 26.00
ISBN 88-7180-610-5

Gli attributi che potrebbero descrivere Cesare Zavattini teorico sono: asistematico, frammentario, un po’ impaziente. Attenzione però, Za ci ha abituati al rovesciamento delle categorie e allo sconfinamento verso i territori dell’imprevisto e dell’inaspettato: quegli aggettivi, che per un qualunque teorico sarebbero offensivi e rivelatori di una mancanza di abilità di mestiere, sono per l’autore di Umberto D segni di un lavoro di speculazione che merita di essere indagato e analizzato.
Nel suo Fisiologia dell’immagine Stefania Parigi ci guida attraverso il reticolo del pensiero teorico di Zavattini che, a parere dell’autrice, si alimenta di "simultaneità, di associazioni, di frammenti che riproducono in se stessi la forza fulminante di un insieme sempre sfuggente". Accanto a quello di Za Parigi pone i nomi di Merleau-Ponty, Bazin, Vertov, Kracauer, Ejzenštein e Pasolini, indica dei "punti di convergenza", necessari per legare le riflessioni dello scrittore a un contesto più vasto, caratterizzato da una continua interrogazione sul cinema come nuovo mezzo di conoscenza del mondo e della storia.
Cinema appunto, e il suo occhio, il suo sguardo come (cito dal libro) "primo impulso operativo e conoscitivo dell’uomo immerso nella materia delle cose" (p. 21). La conoscenza è per Zavattini meraviglia, stupore quasi infantile, nel senso più positivo del termine. Lo sguardo non è sulle cose, ma intorno a esse, crea delle relazioni, ha una vita nel suo vagare per il mondo, è una continua domanda. Appare qui evidente quella dimensione fenomenologica dell’atto del guardare che ritroviamo nella teoria della visione e della percezione di Merleau-Ponty, secondo cui il disegno e il quadro sono "l’interno dell’esterno e l’esterno dell’interno, che la duplicità del sentire rende possibili, e senza i quali non si comprenderanno mai la quasi-presenza e la visibilità imminente che costituiscono tutto il problema dell’immaginario". Dopo questa citazione dal filosofo francese non ci stupisce che l’autrice faccia risaltare il profondo legame che il "guardare" zavattiniano mantiene con il "camminare". Entrambe sono attività di un vedente immerso nel visibile, il risultato è un incontro tra oggettività e soggettività, un pensare attraverso lo sguardo che non è mai stanco di indagare e di mordere il mondo come se tutti e cinque i sensi fossero concentrati in uno solo. Simultaneità di pensiero e sguardo, è questa la chiave: un’avventura conoscitiva che può trovare una nuova profondità nel mezzo cinematografico.
Il cinema è per Za sperimentazione, come la letteratura, è per questo che la sua concezione della settima arte è sostanzialmente antiletteraria. Nel cinema lo scrittore ha scoperto potenzialità negate alla letteratura. Stefania Parigi marca con acume questo passaggio fondamentale nel pensiero di Zavattini: "Il cambiamento della società e del pensiero procede attraverso questa proliferazione e dispersione di azioni visive nello spazio pubblico e privato delle esistenze. Le immagini arrivano con una forza persuasiva sconosciuta alla parola nelle zone più irraggiungibili della vita e della psiche umana" (p. 65). Il mezzo cinematografico pare avere una capacità maieutica. Come per Kracauer, anche per Zavattini la macchina da presa ha la capacità di rivelare il mondo, pure nella apparente insignificanza del quotidiano. È questa la "filosofia al cinema" degli anni neorealisti. Come sottolinea la Parigi "al tempo degli eroi, che caratterizza la grande macchina spettacolare classica, Zavattini contrappone la massa informe e immotivata del quotidiano, popolata da uomini ordinari e gremita di attimi apparentemente insignificanti" (p. 209). Il neorealismo zavattiniano appare sempre più nella sua caratteristica fenomenologia di incontro tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io e gli altri. Il neorealismo si definisce, come scrive Bazin, per un certo tipo di rapporto che i suoi mezzi hanno con il loro fine. Lo sguardo neorealista è etico, democratico, perché nulla del mondo è snobbato, tutto è degno di essere conosciuto.
L’occhio della cinepresa interroga incessante la realtà, si fa strumento di indagine. Il film diventa film-inchiesta, film-lampo, film-diaristico, film-viaggio, film delle confessioni. Storia di Caterina (1953), Siamo donne (1953), Le italiane e l’amore (1961) diventano parte di un’ampia riflessione teorica in cui il cinema antiletterario di Zavattini si fa pluridimensionale e si allontana dal modo consueto della pratica cinematografica. Il regista è un po’ anche antropologo, deve essere fautore di un cinema che penetri nel quotidiano, nell’immediato. Queste possibilità Za le riconosce anche e soprattutto alla televisione. Il nuovo medium, altamente democratico, in continuo contatto con le grandi masse, potrà essere in grado di operare per la nascita di una coscienza critica nel pubblico. Lo scrittore mostra una profonda fiducia nel mezzo televisivo, tanto da dichiarare, nell’autunno del ’76, attraverso un monologo nella trasmissione radiofonica Voi ed io: "Se fossi il padrone della tv spalancherei le porte di Via Teulada almeno una volta al mese, avanti, avanti, avanti, e lascerei che chiunque apparisse sul video a modo suo, chi con un turacciolo sul naso, chi in pigiama, chi urlante, chi solo, chi con i coinquilini o i compaesani".
Certo il pensiero teorico di Zavattini non è rigoroso, non è contenibile: è traboccante. Come lo è il suo corpo d’autore/attore in La veritàaaa. Stefania Parigi decide di concludere il suo denso e interessante volume proprio con una riflessione sulla performance dell’attore: Za, teorico asistematico e disorganizzato deflagra nella plasticità del suo corpo infantile.

Lucia Di Girolamo


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