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Luigi Pirandello

Saggi e interventi

A cura di Ferdinando Taviani

Milano, Mondadori, I Meridiani, 2006, pp. 1640, euro 55,00
ISBN 88-04-54480-5

Per l’edizione dei “Meridiani” Mondadori Ferdinando Taviani ha curato il penultimo volume delle opere di Pirandello. Manca ancora il quarto tomo di Maschere nude dedicato agli ultimi testi teatrali. Come precisa il curatore questo pur densissimo volume non raccoglie tutti gli scritti saggistici pirandelliani che pare siano disseminati nella stampa periodica di tutto il mondo, avendo l’autore massimo del teatro italiano novecentesco l’abitudine non solo di scrivere di suo pugno, ma anche di riciclare e far scrivere ad altri, ma con la propria firma, articoli di ogni tipo. Dunque la presente raccolta vuole solo essere un ricco deposito e non un catalogo completo.

Nella sua lunga introduzione (quasi cento pagine) Taviani distingue l’opera esterna (saggistica) dall’opera interna (la drammaturgia) dello scrittore, e su questo criterio costruisce la selezione e il suo ragionamento critico. Sottolineando la non alta qualità intrinseca di questi scritti, spesso occasionali,  giudicati «come esempi di pensieri che molti scrivevano in quegli anni e moltissimi pensavano», il curatore ne valorizza però il valore di sonda nei confronti della “geografia interna” dell’autore. E partendo di qui si avvia verso una serie di perlustrazioni che se non seguono una retta via - e quindi non mirano ad un preciso obiettivo - tuttavia permettono di lambire e conoscere molte asperità e insenature dell’isola pirandelliana. Il curatore precisa di avere accolto nel volume «Studi, saggi, articoli di giornale, discorsi solenni e d’occasione, prefazioni, e una significativa presenza d’interviste e comunicati», persino «alcuni resoconti in cui la voce di Pirandello emerge da discorsi indiretti», ma non brani dell’epistolario, carte inedite, taccuini, progetti o appunti. Dunque quella che egli definisce «l’opera esterna», dalla quale sono escluse, oltre che le opere creative, le fondamentali cronache famigliari che molto avrebbero da dirci sulle fonti di Pirandello e del pirandellismo.

Ora districandosi fra i contributi critici più illustri ora a questi appoggiandosi in una intelligente antologia critica, Taviani discute della collocazione ‘storica’ di quello che potremmo definire il viaggio di iniziazione dello scrittore fino alla scelta di approdare in maniera definitiva al teatro. Efficace il ritratto dell’uomo che ha appena superato i trent’anni e che cerca, scrivendo tantissimo, di farsi notare, senza molto successo, dalla società dei letterati, invero stagnante nonostante i bagliori dannunziani o i tromboni carducciani. Segue  l’individuazione di una strategia letteraria tanto ambiziosa quanto opaca, almeno nelle scelte dei modelli e delle letture ispiratrici, tesa a circoscrivere il territorio creativo «a lui confacente». E come spesso capita, la rivelazione non viene da un capolavoro, ma forse da opere minori. Efficace è il passaggio in cui Taviani, con un colpo di scena (o da Maestro) cita un libro recensito da Pirandello nel gennaio 1905 sul “Fanfulla della Domenica” (le novelle garibaldine di Giuseppe Lauria) e lo mette in relazione con I vecchi e i giovani. Un caso esemplare di corrispondenza del gusto che è quasi un lampo nel buio quando emerge da quel libro – che Pirandello tratta come esemplare – un racconto-monologo che anticipa le immaginazioni future del narratore e del drammaturgo.

Dopo le sezioni riservate a Il mestiere del letterato (1890-1908)  e a I due libri del 1908 (che sono, è bene ricordarlo, i più celebrati, Arte e scienza e L’umorismo), nella terza si arriva finalmente alla produzione che, almeno in parte, costeggia la riva teatrale Dalla provincia letteraria alle capitali del teatro (1909-1925). Presentando questa fase Taviani si muove più a suo agio: «Spinto dalle strettoie in cui si trovava, Pirandello non innovò. Si arrampicò all’indietro. (…)  Pirandello non innova e non emigra. Come un artigiano che non butta via niente, lavora su tutto il vecchio che si trova intorno (…). Pirandello trovò lo slancio e il respiro internazionale rinculando nell’orizzonte paesano (…)» (pp. LXVI-LXVIII). In sintesi un’interpretazione critica indiscutibile che si fa ancora più convincente quando Taviani, riassumento l’atteggiamento assunto da Pirandello nei confronti della tradizione italiana (Commedia dell’Arte e Goldoni, soprattutto), parla di una visione storica basata su un «consuntivo personale» anacronistico e egocentrico. Ma non per questo meno vero. Come vero e fine è il rilievo dedicato, anche se brevemente (e meriterebbe di essere ripreso), a Marta Abba e alla fase in cui l’opera esterna si sta confondendo con quella interna nella speranza vana di realizzare lo scopo supremo, quello che Taviani chiama «la creazione di un’eredità» (p. LXXXV).

L’eredità, appunto, i figli, la trasmissione. E' la questione più difficile che Taviani ha dovuto affrontare. In particolare nella pubblicazione degli scritti che furono il risultato della collaborazione, non sempre chiaramente distinguibile, del padre Luigi con il figlio Stefano. Sono noti – per riconoscimenti diretti o indiretti dello stesso Stefano – l’aspra tensione e il variabile rancore da cui furono divisi i due uomini. Le belle pagine (Una testimonianza, pp. CIII-CXVIII) scritte da Andrea Pirandello, figlio di Stefano, circa quei rapporti, sfiorano con delicatezza il groviglio di tensioni che li legò e li divise. Un tema, questo, drammatico, che trova riscontro nell’attribuzionismo alle soglie del quale il curatore del volume si ferma. Ma dove si fermò l’Autore? Fin dove lasciò che il Figlio entrasse nella sua camera di scrittore sostituendosi a lui in questo lavorìo considerato minore, servile, addirittura vile? Quanto a quel disprezzo indiretto il figlio-scriba reagì come un attore senza ruolo? Un tema che non sfigura accanto all’altro dramma cui abbiamo accennato, quello che si identifica nella figura di Marta Abba. Vita e teatro, direbbe il Padre dei Sei personaggi.

Nelle note che il curatore dedica a questi scritti ambigui non troviamo traccia di una critica “attribuzionistica”, peraltro spesso impossibile, con la distinzione – è il caso di dirlo – della paternità dei lavori in discussione (l’inizio della confusione scrittoria fra i due comincia nel 1924), tranne nei casi in cui qualche chiarezza viene apportata dallo stesso Stefano. Non so se è vero quel che Taviani scrive circa la non pertinenza della «domanda attribuzionistica» e quando si richiama al fervore di «una mente collettiva»: lo stesso ragionamento andrebbe più attentamente esteso al “corpo collettivo” che grazie a Grasso, Ruggeri, Talli e compagni, rinsanguò le pagine dei copioni pirandelliani, come in parte ha mostrato proprio l’edizione dei “Meridiani” curata da Alessandro d’Amico.

Taviani ha saputo cogliere il sapore amaro del duello tra padre e figlio ai margini della drammaturgia, anche se lo ha poi criticamente dissolto in una visione dialettica in qualche modo consuntiva: «C’è indubbiamente qualcosa di doloroso (o di malato) nella meticolosità con cui Stefano annota a futura memoria (per chi scrive in realtà? Per i figli? Per se stesso che si considera forse sprecato, se non fallito?) i propri interventi negli scritti del padre. (…)», per poi ricondurre il tutto a «quel lavoro a specchio scrittore-e-lettore che fa del normale lavoro critico un continuo discutere servo-padrone, dove non si sa, nei casi migliori, chi sia l’uno e chi sia l’altro» (p. 1587).  Giustamente però osserva che questi lavori, intelligentemente ribattezzati Scritti con “Taluno”, «hanno il non piccolo pregio d’essere esenti dal pirandellismo di Pirandello» (p. XX): giudizio perfettamente condivisibile.

Tutto questo se si guarda al retrobottega o, per usare un’espressione vicina a quelle adoperate dal curatore del volume, perferica, esterna. Superati i contrafforti allestiti in difesa ed entrati nel perimetro del palcoscenico Ferdinando Taviani assegna all’Autore un’altra dimensione che, se non è vera, è tuttavia suggestiva come un doppio appunto “pirandelliano”: «Era – o almeno pareva – tutto qui e ora. Ma non felice d’esservi. E la morte la vedeva come la nuda scomparsa, abolizione del corpo e della mente, con poco da illudersi: la disgustosa decomposizione o il brutale e più sano incenerimento. Un guerriero solitario, che vuol far tutto da sé, un mortanguerriero. Quando entrava in azione, e si sentiva in territorio sicuro, irruenza e contagio erano irresistibili. Salì in quel mondo intermedio che è il palcoscenico alle prove – molto più grande di un tavolino, molto più piccolo d’un paese – e fu di colpo un sovrano» (p. XVII).







di Siro Ferrone


copertina

cast indice del volume


 

A cura e con un saggio introduttivo di Ferdinando Taviani e una testimonianza di Andrea Pirandello
 
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