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Henrik Ibsen

Théâtre

A cura di Régis Boyer

Paris, Gallimard, Bibliothèque de La Pléiade, 2006, pp. 1952, € 71.00
ISBN 2070117901
E’ sempre tempo di stappare champagne, quando escono libri importanti, tanto più se sono pubblicati proprio nel paese dello champagne. Mi riferisco al Théâtre di Ibsen, edito nella prestigiosa collana della Pléiade di Gallimard (Parigi, 2006), testi tradotti e annotati da Régis Boyer, docente di Paris IV, maggiore scandinavista francese, che speriamo di avere presto ospite per i nostri giovani studiosi del dottorato in Scandinavistica e Spettacolo [Università di Torino, N.d.R.].

La Francia ha giocato un ruolo fondamentale nella diffusione di Ibsen nel mondo. Dapprima con Antoine, che impose la lettura di un Ibsen naturalista, e poi con Aurélien Lugné-Poe che impose invece l’opposta lettura di un Ibsen simbolista. E’ vero tuttavia che in questi ultimi anni i francesi (ma così pure i tedeschi, gli inglesi, gli italiani, che parimenti hanno giocato una parte di rilievo nell’affermazione di Ibsen) sono un po’ scomparsi dai convegni internazionali del circuito ibseniano, nonostante qualche brillante contributo (penso a una preziosa lettura di Una casa di bambola di Yves Chevrel) o all’interessante traduzione che Terje Sinding ha curato de Les douze dernières pièces, in quattro volumi (Paris, Imprimerie Nationale, 1991-1993). Proprio rispetto alla pubblicazione di Sinding, il lavoro di Boyer si impone per la maggior ampiezza dell’impresa (non c’è veramente tutto Ibsen, ma c’è il Brand, il Peer Gynt e qualcun’altra delle opere giovanili). Non amplissimo ma utile l’apparato di note ai testi e le Notices premesse ai vari drammi.

Certo, non viene fuori un’immagine nuova di Ibsen, ma un’immagine nuova non si inventa, richiede decenni di studi, e Boyer è uno scandinavista completo, in grado di lavorare su quello che i francesi chiamano la civilisation (cioè sulla società scandinava, la sua storia, la sua geografia, i miti, la religione, ecc.), non è uno specialista ibseniano a stretto rigore, e tanto meno uno storico del teatro. Cita lo studio celebre che Freud ha dedicato a Ibsen, ma non ne cava suggestioni per una lettura complessiva del sottotesto che c’è in ogni opera ibseniana. Non è interessato a inseguire i personaggi nelle loro condotte spesso sinistre, nei loro ambigui origliamenti (anche se talvolta gli origliamenti sono scoperti, confessati: in Un nemico del popolo, in Rosmersholm, ma anche già ne Le colonne della società). Non gli viene il dubbio che l’Osvald di Spettri apra la porta del salotto e origli tutto il dialogo che si svolge fra la madre e il pastor Manders, come in Italia è ormai chiaro da un ventennio (ce lo mostrò Franco Branciaroli in una sua regia del 1987 e più recentemente Massimo Castri nella sua eccellente messinscena del 2004). Proprio a proposito di Spettri Boyer prende per buona la bufala della gioia di vivere, che tira fuori quel lestofante di Osvald quando, a metà del secondo atto, è ormai palesemente brillo (per tutto il Porto bianco e il Porto rosso che si è bevuto a tavola, per il molto liquore che ha bevuto dopo il pranzo, come gli rinfaccia la madre, e per lo champagne che si è scolato da solo, non avendone preso nemmeno un goccio la buona madre). Proprio Castri ha mostrato bene questo punto: ha fatto parlare il suo Osvald con la bocca impastata e l’andatura barcollante degli ubriachi: in questo modo è risultato evidente anche al più ingenuo degli spettatori che la storia della gioia di vivere è solo un modo di misitificare le sue pulsioni alla vita dissipata e viziosa.

La bontà di una nuova traduzione si misura tuttavia, si sa, sulla novità della traduzione. E una nuova traduzione di Ibsen, oggi, significa tradurre avendo a fianco le Concordanze ibseniane. Perché la lingua di Ibsen è fatta di riprese, di richiami – ora sotterranei, ora espliciti – anche a distanza di venti, trenta, quaranta pagine. Ed è fatta di particolarità stilistiche, di accensioni di tono, talvolta di chiasmi, che valgono a sottolineare la drammaticità di un passaggio. In Una casa di bambola ce ne sono diversi, il più importante nel finale, quando Nora si toglie l’anello nuziale. “Også dette?” chiede Torvald, e Nora ribatte: “Dette også”. Boyer traduce “Cela aussi? / Cela aussi”. Ma aveva fatto così anche Sinding, e così pure tutti i più illustri traduttori inglesi. Pazienza, i tempi non sono ancora maturi per queste finezze. Le Concordanze dovrebbero però servire, almeno per le riprese e i richiami. Ibsen usa “kvinde” (donna) 501 volte, “fruentimmer” (femmina) 22 volte, e “tøs” (ragazza, ragazzetta, squinzia) 8 volte.

Bisogna sforzarsi di rispettare queste corrispondenze. Boyer rende due dei tre “tøs” di Spettri con “gamine”, ma sul terzo preferisce “fille” (“Belle fille comme tu l’es devenue ces deux, trois dernières années…”). Preferisce giustamente, perché “gamine” non ha il valore di pienezza erotica che c’è nel terzo caso, ma il problema è sforzarsi di trovare un termine che copra tutte le inflessioni ibseniane. Non dico che sia possibile sempre, sistematicamente, ma non bisogna aver paura di tallonare Ibsen, di riprodurne le insistenze ossessive. Alla fine del primo atto, dopo che Manders ha fatto la morale alla signora Alving, la donna replica con un prologo di intensa carica retorica: “Ora ha parlato, signor pastore; e domani parlerà in pubblico in memoria di mio marito. Io domani non parlerò. Adesso vorrei un po’ parlare io, come ha parlato lei con me”. In due righe ben cinque volte il verbo “parlare”. Boyer traduce per quattro volte con “parler”, una in più di Sinding, ma una in meno di Ibsen. Altre volte, tuttavia, va riconosciuto a Boyer il merito di uno sforzo autentico al fine di rendere la pienezza talvolta ottocentesca della lingua ibseniana. Sempre Manders, che rinfaccia alla signora Alving di essere fuggita di casa, di aver piantato “Deres hus og hjem”, “la sua casa e il suo focolare”. Per Sinding la donna ha abbandonato il suo “foyer” e basta, ma per Boyer, opportunamente, “votre maison et votre foyer”.

S’intende che tradurre è sempre interpretare, e, in definitiva (ed è questa, forse, la conclusione più triste, a livello metodologico, allargando il discorso, prescindendo dal libro in questione di Boyer) non c’è traduzione nuova se non c’è interpretazione nuova. Nel finale del dramma Osvald parla ripetutamente di “spædt barn” o di “spædebarn” (grafie leggermente diverse, che valgono entrambe “neonato”), mentre Helene Alving parla rietutamente di “barn” (bambino) o di “lidet barn” (piccolo bambino). Ognuno dei due personaggi dice le sue angosce e i suoi desideri profondi, deliranti, inconfessati e inconfessabili. Osvald è terrorizzato all’idea di tornare neonato, creatura in fasce, che deve essere imboccato, pulito. Il disgusto è tale che non riesce a finire la frase, dice “essere imboccati, essere – ”.

L’idea di essere pulito delle sue feci e della sua orina gli blocca la parola in gola. Helene, per l’inverso, non sembra così sconvolta. La critica non ci ha mai pensato (la critica non pensa quasi mai alle cose che contano…), ma in Helene Alving c’è anche il dramma della madre che non ha potuto essere, e che forse, paradossalmente, in maniera folle, può ancora essere. Helene può anche accettare ciò che per Osvald è inaccettabile, convivere con Osvald ridotto a puro corpo vegetativo, nella follia delirante di ritrovare quell’Osvald bambino che non ha mai avuto, di recuperare una dimensione perduta del passato. Non per nulla Helene insiste su un linguaggio che parla sistematicamente di Osvald “barn” (bambino) o “lidet barn” (piccolo bambino). Osvald è stato mandato via di casa a sette anni; ciò che manca a Helene non è l’esperienza di Osvald neonato, bensì di Osvald bambino, dai sette anni in su. (E non insisto sul fatto che, su questo punto, solo Castri ha visto giusto, inventandosi un finale pacificato in cui la madre convive serenamente con il suo Osvald handicappato, che cammina carponi per il salotto giocando con un cappello militare e una spada giocattolo, sulle peste del papà capitano). Insisto invece sul fatto che Boyer non conserva questa rigida opposizione fra il “neonato” di Osvald e il “bambino” di Helene, e mette in bocca a Osvald sia “nouveau-né” che “tout petit enfant”, che raddoppia e confonde il “petit enfant” che dice Helene.


Copyright "Turin Dams Review"
di Roberto Alonge


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