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Giorgio Tinazzi

La scrittura e lo sguardo
Cinema e letteratura

Venezia, Marsilio, 2007, pp. 188, € 9.90
ISBN 88-317-9143
La questione degli innumerevoli rapporti tra cinema e letteratura è al centro de La scrittura e lo sguardo, la nuova pregevole e completa pubblicazione di Giorgio Tinazzi, che cerca di individuare le zone di interferenza e di influenza tra le due arti, andando oltre il problema pur importante, ma non esclusivo, dell’adattamento. Un maneggevole e sintetico libro di carattere volutamente divulgativo, ma al contempo utilissimo strumento per un approfondimento storico-critico sulla reciprocità degli scambi culturali che il mondo del cinema e della letteratura hanno costruito da più di un secolo a questa parte. Essendo il ventaglio di temi e problemi molto vasto, Tinazzi privilegia la scansione per singole tematiche, operando delle separazioni che, se a volte hanno dei confini incerti, rendono però la lettura piacevolmente scorrevole e sistematica.

Il discorso prende le mosse dagli albori del cinema, dallo sguardo che i letterati rivolsero alla nuova arte, a cui non subito riconobbero un’adeguata dignità artistica; il cinema invece sfruttò da subito il grande serbatoio di storie che la letteratura poteva garantire, insieme naturalmente alla "nobilitazione" che essa offriva a una forma di spettacolo nata come semplice curiosità o attrattiva tecnica. Esigenze economiche e culturali spinsero però molti letterati (in Italia ad esempio Marinetti, Prezzolini, Campana) ad avvicinarsi al cinema, seppur con innumerevoli riserve.

Nel capitolo sulla narrazione, uno dei più densi dal punto di vista speculativo, Tinazzi tenta di fare il punto sul valore ontologico, per il cinema, dello sviluppo della narrazione come asse privilegiato di un’evoluzione centrale nella costruzione di un linguaggio specifico dell’arte cinematografica stessa; una narrazione legata però all’altrettanto importantissimo valore che assume il tempo. Si va cioè alla radice del valore del racconto stesso. Ricorrendo prima ad Aumont e poi a Ricoeur (per cui esiste una correlazione non accidentale tra l’attività di raccontare una storia e il carattere temporale dell’esperienza umana, esperienza certo non mimetica, ma riproduttiva), Tinazzi conclude che "si possono considerare i significati di un film, quando la dimensione temporale è l’oggetto privilegiato della narrazione" (p. 26) ed è "in questa direzione di libertà – costrizione, dilatazione, coincidenza tra tempo di racconto e tempo raccontato – cinema e letteratura si muovono in modo simile" (p. 29). Il cinema adotta dunque la forma prevalente del racconto "letterario", proiettandolo nella manipolazione temporale propria del montaggio, e le sfide che molti autori adottarono nella storia del cinema furono proprio contro questo modello narrativo.

Tinazzi passa poi a scandagliare il complesso ventaglio delle reciproche influenze: la letteratura come retroterra, momento di formazione, punto di riferimento (come per Rohmer, Truffaut e Ophuls), l’importanza del cinema per la formazione di uno scrittore (da Sciascia a Pavese fino ad Ammaniti), ma anche gli scambi "linguistici" tra le due arti, cioè le procedure "cinematografiche" in letteratura che hanno conosciuto numerose tappe relative allo stile (fecondissima la stagione dell’avanguardia storica), con il cinema che "ha tolto alla letteratura la persistente tentazione al naturalismo" (p. 50). Il cinema consolida il suo modo di raccontare proprio nell’epoca in cui entra in crisi il romanzo letterario (l’Ulisse esce nel 1914), per poi andare in crisi esso stesso dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale. Mostrare e raccontare: "racconto delle storie che vedo intorno a me" diceva Antonioni.

Stesse questioni si ripropongono nel capitolo dedicato ai generi: "La differenza non altera un meccanismo di base, la prevedibilità. E’ la conoscenza acquisita delle regole, che si sa condivisa da altri, a produrre nello spettatore-lettore un duplice piacere: quello della conferma e quello della similarità" (p. 60). Per quanto riguarda i problemi della sceneggiatura, dell’adattamento e della citazione Tinazzi sceglie di sviscerare la lunga casistica delle varie opzioni che si sono verificate nella storia del cinema. La seconda parte del libro può essere a sua volta in due sottotracce: una dedicata ai "mestieri" (letterati critici cinematografici, scrittori registi, destinatario e marcato) e l’altra ai "sistemi": il cinema nella letteratura e la letteratura nel cinema, la letteratura come metodo e come riferimento. In questo complesso quadro il cinema e la sala diventano per gli scrittori e i poeti una forma di iniziazione, di scoperta, di partecipazione a un rito collettivo di formazione, ma anche uno sfondo significativo, una metafora dell’effimero, un regno delle possibilità e della tecnica.

Pregevoli sono le schede di approfondimento che Tinazzi inserisce all’interno di alcuni capitoli, per spiegare alcuni "casi esemplari" in rapporto ai temi trattati, e che costituiscono un utilissimo vademecum per il lettore; in tal modo egli viene portato al centro di una serie di riflessioni più ampie (come quelle su Pirandello, sulle possibili corrispondenze segrete tra Truffaut e Calvino e tra Welles e Blixen) su temi che, pur essendo stati lungamente dibattuti e sviscerati, non mancano di rivelare ancora oggi il loro fascino, proprio per il loro carattere, potremmo dire, di reciproca dialettica. Scriveva (non a caso) Rohmer: "Non è uno dei meriti minori del cinema l’averci resi più severi nei confronti dell’arte del bel dire che segna l’impotenza di dire, più sensibili al vigore dello stile che alla sua enfasi, al verbo che all’aggettivo, all’intenzione e alla dinamica che alla sensazione e alla statica?". Appunto.

Marco Luceri


"La scrittura e lo sguardo"- copertina

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