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Anna Lisa Balboni

La donna fatale nel cinema muto italiano e nella cultura tra l'Ottocento e il Novecento. Iconografie e simbolismi


Castrocaro Terme, Vespignani Editore, 2006, pp. 126, [s.i.p.]
Il cinema muto italiano e le dive, un connubio unico e irripetibile. Gli sviluppi dell’arte e dello spettacolo tra Ottocento e Novecento favoriscono il successo di un tipo particolare di donna, la Femme Fatale, manipolatrice di uomini e destini.

Il bel volume scritto da Anna Lisa Balboni e curato dall’Accademia degli Imperfetti di Meldola, La Donna Fatale nel cinema muto italiano e nella cultura tra l’Ottocento e il Novecento - Iconografie e simbolismi, illustra in maniera chiara e suggestiva le origini e le ragioni dell’affermazione di questo modo di essere attrice nell’Italia cinematografica di Pastrone e D’Annunzio. Come scrive Anna Lisa Balboni, durante il periodo storico preso in considerazione «nuovi sintomi, nuove attese, nuove esperienze creano stretti legami all’interno delle diverse discipline». In questo clima la Donna Fatale, icona mitica, irraggiungibile figura dal fascino magnetico, vive la propria parabola, diventando vessillo di un ideale di bellezza che non si riduce alla sola avvenenza delle fattezze fisiche. La Femme Fatale dispone di capacità di dominio, del capriccio della trasgressione, del piacere di essere più donne contemporaneamente. La Diva del cinema muto italiano è tutto questo, magnifica, sofisticata e sinuosa come un décor in stile Liberty, è il prodotto non tanto dell’Italia reale quanto di quella letteraria e artistica.

Il terzo capitolo del libro intitolato La Diva, donna fatale nel rapporto fra le arti, sottolinea le relazioni strettissime che intercorrono tra l’immaginario creato dai quadri e romanzi prodotti tra fine Ottocento e inizio Novecento e l’immagine delle dive cinematografiche. Se la sensualità del gesto e dello sguardo sono ciò che colpiscono in superficie, la capacità di gestire il proprio corpo cela anche la consapevolezza del proprio potere di fascinazione: «essa in realtà, in queste sue nuove vesti, porta avanti una battaglia che ha in sé un forte risvolto sociale: non vuole fare altro infatti, che combattere per l’emancipazione, per l’istituzione dei rapporti sociali che le assicurino una certa libertà, e lo fa proprio attraverso un ritorno e un contatto diretto con una natura originaria, spesso proponendosi in forme che evocano elementi archetipici, appunto». La donna fatale è vicina alla parte più istintiva dell’essere umano, colpisce l’uomo perché è "il genio del male" e "un angelo salvatore" nello stesso tempo; è un archetipo, un simbolo di un mondo perduto e desiderato proprio perché irraggiungibile.

Essere poliedrico, dalle mille forme in perenne mutazione, la donna fatale/diva cinematografica è donna/natura, angelo del focolare, può essere pallida e malata, esistente più in spirito che in materia, può essere seducente, ma anche arrivare a incarnare la declinazione estrema di poco comuni e quasi inumane capacità di seduzione nella "Vamp", donna/vampiro, mangiatrice di uomini. Le innumerevoli versioni della diva si concretano nel gesto, nello stile recitativo, nel volto soprattutto. Un volto che poi, inevitabilmente, può andare incontro all’invecchiamento, e allora si rivela l’altra faccia della Diva, quella invecchiata e un po’ spenta, che non può competere con lo splendore degli anni della giovinezza. Alla fine degli anni Dieci vince, come sottolinea l’autrice, l’esigenza di «dare una conclusione necessaria ad un momento fondamentale della storia del cinema italiano, trovando una rinnovata identità nell’ambito del mito». Ed è appunto nella sfera del mito che vivono ancora le Grandi Dive come Francesca Bertini, Pina Menichelli o Hesperia.



Lucia Di Girolamo


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