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Catalogo France Cinéma 2006 - Retrospettiva Philippe Noiret

A cura di Aldo Tassone e Joel Magny

Firenze, Edizioni Aida, 2006, € 19,00

Il festival fiorentino France Cinéma, svoltosi quest’anno dal 30 ottobre al 5 novembre, ha ormai la consolidata tradizione di offrire al suo pubblico la pubblicazione di sontuosi cataloghi, che in tanti anni hanno rappresentato da una parte un utile e originale supporto alle proiezioni e dall’altra un approfondimento dei temi e dei motivi legati alle retrospettive (monografiche e non) che si sono succedute. Grazie all’impegno e all’instancabile passione dei suoi organizzatori Aldo Tassone e Françoise Pieri, quest’anno il festival ha dedicato, per la prima volta nella sua storia, la retrospettiva ad un attore, un gigante del cinema francese, Philippe Noiret.

Sicuramente non una scelta a caso, visto che Noiret ha avuto una lunga carriera anche in Italia, avendo recitato in film come La grande abbuffata e Non toccare la donna bianca (Marco Ferreri), Amici miei uno e due (Mario Monicelli), Tre fratelli (Francesco Rosi), La famiglia (Ettore Scola), Gli occhiali d’oro (Giuliano Montaldo), Il deserto dei tartari (Vittorio Zurlini) fino a Nuovo Cinema Paradiso (Giuseppe Tornatore) e a Il postino (Michael Radford - Massimo Troisi) e rappresentando per questo un ponte ideale tra le cinematografie dei due Paesi.

Il catalogo 2006 dedica quindi il suo approfondimento al cinema di Noiret, dividendo i saggi e le testimonianze in quattro sezioni. Nella prima si traccia un profilo biografico; nella seconda si succedono una serie di interviste, realizzate da Tassone, che rappresentano delle preziose testimonianze di attori, registi, amici che hanno vissuto con Noiret esperienze di lavoro e di vita: Sabine Azéma, Jean-Pierre Marielle, Mario Monicelli, Giuliano Montaldo, Jean-Paul Rappenau, Alain Resnais, Claude e Catherine Rich, Jean Rochefort, Francesco Rosi, Ettore Scola, Bertrand Tavernier e Giuseppe Tornatore; la terza sezione, quella più interessante, è un’antologia di interviste rilasciate dallo stesso Noiret sulla famiglia, l’apprendistato, la formazione e più in generale sul cinema, il teatro, la televisione, sui registi e sul mestiere dell’attore (il tutto corredato da lunghe interviste rilasciate da Noiret a Jean-Pierre Lavoignat, una nel 1989, e una in quest’anno); si chiude con le schede dei film della retrospettiva.

Sono le due sezioni centrali che ci offrono un ritratto completo, omogeneo e coerente dell’attore, soprattutto la seconda, che si nutre della viva voce di chi gli è stato accanto sul set e sul palcoscenico. Tutti sembrano più o meno confermare ciò che scrive all’inizio Dominique Maillet e cioè che "Noiret è circondato da una sorta di aura magnetica che non è possibile penetrare. Mantiene sempre un certo distacco, una distanza. […] E’ riuscito a imporre un personaggio che non autorizza incursioni permanenti. […] Con certi cineasti che pur apprezza (Pialat, Godard) non ha mai lavorato perché sapeva che sul set erano dei tiranni. Bisogna ricordare che non era molto amato dalla Nouvelle Vague perché data la sua formazione teatrale (il Théâtre National Populaire fondato da Jean Vilar nel 1951, ndr) rappresentava un altro cinema" (p. 57).

Le qualità che colpiscono di lui, dice Azéma, sono "sicuramente l’intelligenza, ma anche l’umiltà. Sopravvalutarsi non fa parte della sua personalità, per questo lo trovo geniale e umile allo stesso tempo. Osservando i ruoli che ha interpretato, si capisce che è anche capace di costruire un personaggio attraverso tanti particolari, a cominciare dagli abiti: sceglie attentamente il cappello, la pipa, gli occhiali, gli accessori… ogni particolare è calcolato. Si documenta appassionatamente, predispone tutto con estrema intelligenza, umiltà e generosità nei confronti del regista e del personaggio. Tutto parte dalla costruzione del personaggio. Noiret ha la capacità di rendere intelligente il mestiere dell’attore, lui illumina il film" (pp. 63-64). "Il suo grande talento – dice Marielle – è un dono del cielo. Sul piano umano apprezzo molto la sua fedeltà, la sua calorosa accoglienza. Allo stesso tempo c’è in lui una sorta di tenerezza, di fragilità, che un po’ sparisce dietro all’apparenza colossale del personaggio. C’è insomma in lui qualcosa di commovente. […] Entrambi detestiamo le fioriture. Si tenta il più possibile di arrivare all’essenziale, evitando le ridondanze […] E’ un piccolo vezzo quello di presentarsi sul set fingendo di non conoscere la parte: quando Philippe arriva sul set sa assolutamente tutto. E’ un vero professionista" (pp. 65-67).

Aggiunge Monicelli: "Quando gli attori sono, come nel caso di Noiret, di qualità eccelsa si lavora benissimo. Indicazioni? Ma hanno letto la sceneggiatura, conoscono il personaggio, hanno capito per l’ottanta per cento di cosa si tratta; resta quel venti per cento che va’ un po’ registrato con qualche colloquio e basta. I primi tre-quattro giorni di riprese c’è sul momento un’ultima registrazione di qualche atteggiamento, dopodichè la cosa è finita. […] Gli interpreti di grande qualità non sbagliano mai. Anche se tu gli chiedi di fare una cosa diversa, gli dici ad esempio «ecco a questo qui dàgli un tono un po’ più malinconico!», vanno lì e lo fanno. Perché sanno come devono fare, hanno il controllo di tutto: della mimica, dell’espressione, delle intonazioni. Sanno come devono fare. E’ il mediocre che, poverino, anche se ha capito quello che tu vuoi, non ha i mezzi per rifarlo, e allora sono battaglie continue, ripetizioni, eccetera… […] Quello è il segreto. Si deve dire così com’è. Ma è difficilissimo perché tutti vogliono aggiungere, far capire che sono bravi, che sanno sottolineare. La semplicità è una cosa difficilissima; Noiret questa dote la possiede in maniera suprema. […] Il talento è anche saper chiudere, togliere. L’arte della recitazione è l’arte del togliere, del levare, non dell’aggiungere. Invece l’attore mediocre aggiunge sempre, fa sempre di più, vuol far vedere. Mentre l’attore di grande qualità non fa altro che togliere, ridurre, rastremare, far diventare tutto più semplice. Comunque l’arte è così, l’arte del levare" (pp. 68-73).

Anche la testimonianza di Jean-Paul Rappenau è preziosa perché mette in evidenza la straordinaria potenzialità espressiva della voce di Noiret: "Sul set era un gran signore, come sempre. Sublime come quando in cabaret faceva Luigi XIV. E poi le stravaganze che diceva, quella sua voce… Io sono innamorato della sua voce, come molta gente che ha lavorato con lui. […] E’ capitale. So anche che Alain Resnais è molto sensibile alle voci. Forse dipende dalla nostra antica passione per il teatro. E curiosamente in questo film (La vie de château, ndr) tra Mary Marquet, Philippe Noiret e Pierre Brasseur (Denevue appartiene più a un’altra generazione): tre splendide voci, così giuste, sembrava di stare a teatro. Ho avuto una fortuna incredibile, grazie anche al fiuto di Philippe Noiret" (pp. 78-79). Conferma lo stesso Resnais: "Philippe è un attore davvero geniale. Adoro la bellezza della sua voce, il suo fraseggio, il suo apparente distacco da spaesato. Noiret mi fa sentire che siamo a teatro, c’è una meravigliosa coesistenza tra il personaggio e la spontaneità della recitazione; mi piacciono gli attori che mi ricordano che siamo a teatro, come Laurence Olivier e Noiret appunto. Questo potrebbe scioccare qualche purista, ma per me non c’è una reale opposizione tra teatro e cinema, quando si parla della differenza di linguaggi tra queste due forme d’arte mi viene da sorridere: il teatro sarebbe statico e parlerebbe del passato, mentre il cinema, arte del movimento, sarebbe il presente… Questo tipo di argomentazioni mi sembrano prive di senso (p. 81)". Ma è forse quello di Jean Rochefort il ritratto più intimo e divertente di Noiret: "Noiret, Marielle e Rochefort è il trio dell’amicizia. Facevamo parte della stessa generazione, c’era tra noi una profonda affinità. Abbiamo sentito il desiderio di lavorare insieme con grande complicità, a volte la formula ci ha premiati", aggiungendo sulla mancata partecipazione dei tre ai fermenti della Nouvelle Vague (se si fa eccezione per il Noiret di Zazie dans le metrò) che "Avevo realmente sognato di far parte di questo movimento, ma non è successo. Non so perché. Forse non avevo le conoscenze giuste, o non avevo voglia di farmene, di stringere alleanze (loro erano un gruppo molto solidale e agguerrito). Io come Philippe sono sempre stato molto pudico, e così in quegli anni ho fatto soprattutto teatro. […] Tutti gli attori importanti penso siano gemellari , hanno cioè una doppia personalità, non sono quel che sembrano a prima vista. Noiret ha effettivamente una componente femminile sotto il suo aspetto rustico, massiccio; dietro c’è un pudore, una fragilità davvero emozionante" (pp. 88).

Tavernier ci parla invece di Noiret come un vero e proprio alter ego (difficile dargli torto, visto che sono ben sei i film sfornati dal duo): "Come Mastroianni, anche Philippe ha una grande freschezza di approccio e una grande libertà. Ambedue sanno passare con molto humor da un tono all’altro, dal dramma alla commedia, e non hanno nessuna paura davanti a niente. Si possono adattare a qualsiasi cosa… Philippe arriva a scoprire il colore, la psicologia attraverso gli accessori: tutto questo lo aiuta a ritrovare il personaggio, e lo ritrova solo parlando di cose concrete. […] E’ facilissimo dirigere un attore come Noiret. Come Jean Gabin, Philippe sente istintivamente ciò che è giusto e no. Non è necessario spiegargli il personaggio. Non è uno che ami analizzarsi freddamente: ama sorprendersi e sorprendere. Siccome a me non piace fissare la gente in un ruolo la libertà di Noiret mi va a pennello. […] Siamo assolutamente sulla stessa lunghezza d’onda. Abbiamo anche le stesse indignazioni, c’è tra noi una sorta di tacito accordo morale… Noiret mi permette di trasmettere più liberamente le mie emozioni più segrete, i miei dubbi più profondi" (p. 99).

Sulla grandiosa semplicità dello stile recitativo di Noiret ritorna anche Tornatore: "E’ una grande qualità. Negli anni mi sono convinto di una cosa: un attore più è grande, più è semplice, più è semplice più è grande. […] La cosa di Philippe che non ho trovato in altri? Viene sul set anche quando si girano scene in cui lui non c’è. Gli piace. Se c’è un’intera giornata in cui lui non è previsto, Philippe non piglia un aereo, un treno, o si va a fare una passeggiata. No, viene lo stesso sul set, si siede là, e si diverte a guardare tutto quello che succede. Partecipa a tutto, lo ha fatto per tutte le riprese di Nuovo cinema paradiso" (p. 104).

Tra le tantissime osservazioni di Noiret riportate nella sezione Il cinema (e la vita) secondo Philippe potremmo citarne alcune particolarmente significative: "I primi dieci anni si impara il mestiere, in seguito bisogna dimenticare ciò che si è imparato, mantenersi freschi e sensibili per non contare unicamente sulla tecnica, Con rare eccezioni, per esempio Gérard Philipe, si diventa veramente attori a partire dai trent’anni. Il successo, se viene, si devono in piccola parte ai doni che si possiedono, ma soprattutto al lavoro fatto, alla fortuna e agli incontri. […]. La preparazione di un ruolo è tutta una cucina tra l’attore e il personaggio. Ci si impregna poco a poco. Poi si legge la sceneggiatura e il lavoro si fa da solo, segretamente, spesso a propria insaputa. Non crediate che si lavori in una sorta di "geniale" concentrazione al buio. Durante le riprese di Thérèse Desqueyroux ci capitava di ridere. L’importante è evitare la routine: le abitudini sono sempre nefaste. Per fortuna i sette anni passati con Jean Vilar mi hanno reso molto esigente con me stesso. Il cinema purtroppo tende a rinchiuderti in un ruolo, bisogna sfuggire alle catalogazioni, alla monotonia, che è la cosa più triste che possa capitare a un attore: si ama questo mestiere proprio per la sua varietà. […] Monicelli non dirigeva affatto! Curava la messa in scena ma non dirigeva realmente. Del resto non c’è bisogno di essere diretti per questo tipo di film (Amici miei, ndr) in cui non c’è una psicologia dei personaggi. E’ la commedia in tutto quello che ha di più gaio e spontaneo. Quando c’è una vera materia, delle situazioni e dei personaggi ben delineati, basta calarcisi dentro, infilarsi l’abito la mattina e via! Insomma non c’è necessità di porsi dei problemi di interpretazione. Quando si pongono vuol dire che manca qualcosa! In questi casi uno ricorre alla propria valigetta dei cosiddetti trucchi del mestiere, per tentare di riempire i vuoti che possono esserci nella scrittura. […] Non mi piacciono i registi autoritari, direttivi, violenti, quelli che vi rampognano o addirittura vi prendono a schiaffi, come faceva Clouzot. Insomma non credo ai direttori di attori. Come se potessero davvero dirigerci, che ingenuità! Noi attori abbiamo solo bisogno di essere amati: non vogliamo essere giudicati, ma solo guardati, e con tenerezza; allora, con un semplice battito di ciglia uno può fare quello che vuole…" (pp. 112-150).

Parola di attore. Parola di Philippe Noiret.


Marco Luceri


Catalogo France Cinéma 2006 - Retrospettiva Philippe Noiret

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