Il numero 452 di Cineforum (marzo 2006) si apre con due interessanti speciali che analizzano in maniera compiuta e approfondita alcuni snodi cruciali di due tra i più importanti film usciti in questa stagione, The New World di Terrence Malick e Munich di Steven Spielberg. Entrambe le due raccolte di saggi partono dallanalisi di singoli aspetti originali dei due film per ricostruire i modi in cui la poetica dei due autori sopra citati ha preso nuova forma nella complessa elaborazione di queste due opere. In particolare segnaliamo Un puro dopo di Giulio Bursi e Rinascere al mondo di Giuseppe Imperatore, per The New World, e Un insieme di thriller di Franco La Polla per Munich.
La rubrica Primi piani propone due saggi, uno sul regista americano Walter Hill e laltro sullattore austriaco Helmut Berger.
Il primo, Classico e moderno – Nostalgie e contaminazioni in Walter Hill, firmato da Alberto Morsiani, ripercorre la carriera di uno dei più grandi outsider del cinema americano contemporaneo, con particolare attenzione allimportanza del ruolo ricoperto dalla personale rielaborazione poetica degli stilemi del cinema americano intrapresa da Hill con il suo cinema, fatto di splendidi e miserevoli fighters: "La dialettica è quella eterna del cinema americano: dentro e fuori, obblighi sociali e libertà individuale. Bronson (qui nel primo film di Hill, Leroe della strada, 1975, ndr) è un fighter, come quasi tutti gli eroi dei film di Walter Hill, gente che si batte per la propria dignità di uomini, spesso contro lautorità dello stato o del sistema" (p. 51). Storicamente potremmo dunque affermare che Hill è il vero erede di Sam Peckinpah? A ben guardare forse sì, se non altro per il filo rosso che corre tra i personaggi (spesso "straccioni") dei due, anche se Hill appare meno feroce e pungente di Peckinpah. Hill nasce artisticamente in un periodo di grandi cambiamenti per la storia del cinema americano: negli anni 70 il sistema degli studios è andato in crisi da parecchi anni, la struttura dei generi classici sembra ormai definitivamente alle spalle, la New Hollywood ha portato freschezza e nuove inquietudini. Hill, pur guardando al "glorioso" passato, come molti autori della sua generazione, che esordiscono tra la fine dei 60 e linizio dei 70, si inserisce nel solco vuoto di questa nuova modernità cinematografica. In realtà, come osserva giustamente Morsiani, "i temi, che sono sempre quelli, vanno dunque inseriti nella modernità, perché il pubblico continui a dimostrare interesse. Hill si accorge subito che bisogna venire a patti, se si vuole continuare a lavorare; la sua carriera alterna dora in avanti buoni film ad opere meno riuscite, ma lottica rimarrà sempre quella di non isolarsi, di mantenere il contatto col pubblico e coi finanziatori" (p. 51). Insomma, Vecchia Hollywood, Nuova Hollywood.
Il secondo saggio della rubrica è linteressantissimo La poesia del volto – ritratto di Helmut Berger attore viscontiano ed è firmato da Paola-Ludovika Coriando. Tra i più importanti attori del secondo Novecento, Helmut Berger ha dato corpo e sostanza scenica a tanti celebri personaggi del grande cinema dautore, da De Sica a Losey, fino al sodalizio artistico e umano che lo legherà ben presto, sin da giovane, lui, the most beautiful man in the world, al grande aristocratico comunista Luchino Visconti. E indubbio che al volto di Berger sia legato limmaginario che evoca i fasti decadenti del secondo Visconti, ed è proprio con La caduta degli dei (1969), che Berger comincia a definire il proprio profilo recitativo che lo renderà inconfondibile e che raggiungerà con Ludwig (1972) la piena maturità. Berger è un attore che spinge a massimo le potenzialità mimiche del volto: "il Martin de La caduta degli dei racchiude in se i due lati dello specchio, è insieme Dorian e il suo ritratto, ed è proprio assimilando e rendendo visibili queste contraddizioni che il volto di Berger comincia a diventare opera darte interiore, o come direbbe Balázs: poesia delle sensazioni" (p. 59).
Sotto la sapientissima guida di Visconti, Berger diventa la star androgina, si coglie nella sua interpretazione tutta lambiguità di una novella Dietrich: "Dora in poi quel sorriso appena abbozzato, seducente e pericoloso, nasconderà sotto la sua eleganza nobilmente e sottilmente androgina profondità sempre più imperscrutabile, abissi evocati e poi subito respinti in un volgere rapido degli occhi, in un gesto nervoso della mano" (p. 59). Sensibilità e autodistruzione, le due polarità che ritornano spessissimo nel percorso artistico di Berger, convergono nel testamento viscontiano di Ludwig, nel personaggio del re di Baviera, gigantesca personalità solitaria e incompresa, in cui il processo di autoidentificazione, nella vita prima che nel film, raggiunge il suo maggiore livello artistico: "Nei miei sogni, e a un certo punto anche nella vita reale, diventai Ludwig" (p. 60). La sua recitazione è un autentica esplosione continua di variazioni e dettagli, di contraddizioni e di slanci, "e nei tratti segreti di questo Re, di questo Attore, ritorna più seducente che mai la maestà ribelle e grande dellassurdo" (p. 63).
Va dato il giusto merito allautrice di questo bel saggio di aver indirettamente posto, nelle pagine di Cineforum, una vecchia questione, quella dello spazio riservato nelle nostre riviste cinematografiche agli studi intorno al problema dellattore cinematografico. Proprio lo scritto della Coriando dimostra quanto importante sia stato, per la riuscita di grandi capolavori, lapporto creativo dellattore e quanto possa essere importante lo studio sul lavoro che porta lattore alla creazione del "suo" personaggio. Il sodalizio artistico e umano tra Berger e Visconti ne è forse una delle più importanti prove storiche.
Marco Luceri
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