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Tullio Kezich

La rivolta degli attori. Il ''prologo in teatro'' del Sessantotto


Roma, Grenese editore, 2005, pp. 124, euro 12,00
ISBN 88-8440-386-3

Tullio Kezich è il migliore critico cinematografico vivente in Italia, ma è anche un prolifico autore teatrale. Non sono in grado di indicare il numero esatto dei suoi copioni (scritti da solo o firmati con altri) ma credo che superino di molto la produzione media degli autori nostrani. Fra i suoi lavori drammaturgici alcuni godono di una fama assai diffusa. Tra questi si ricordano almeno La coscienza di Zeno (1964), un brillantissimo e intelligente Bouvard e Pecuchet, diretto da Luigi Squarzina e interpretato da Tino Buazzelli e Glauco Mauri (1968), Il fu Mattia Pascal (1974); fra i drammi che non hanno avuto la fortuna che avrebbero meritato mi piace ricordare un originale  Vittoriale degli Italiani pubblicato nel 1990. Si tratta in ogni caso di un autore vero che ha preferito le riscritture patenti alle patenti fasulle di originalità. Del resto quasi tutta la letteratura teatrale è ''derivata'' quando addirittura non sia il frutto di intelligenti riscritture parodiche. Non sarebbe male che una scelta dei suoi testi per il teatro venisse ristampata per far apprezzare la qualità scenica del suo scrivere anche a chi non ebbe l'occasione di vederne gli spettacoli. Ma non è facile superare i preconcetti autoriali di cui sono vittime la critica e l'editoria del teatro che anche altrove stentano a riconoscere il valore di autori a scrittori-sceneggiatori come ad esempio Jean-Claude Carrière.

Kezich si è occupato di teatro in molti altri modi. Collaborò con Giorgio Strehler e Ludovico Zorzi alla costruzione di una versione televisiva (è stato anche dirigente e programmista della Rai) dei Mémoires di Carlo Goldoni, diresse per qualche tempo all'inizio degli anni Settanta l'allora autorevole rivista ''Sipario'' e scrisse, in varie circostanze, articoli di sentita e intelligente militanza sulla vita teatrale contemporanea. Alcuni di questi scritti sono raccolti nel volumetto che qui segnaliamo. Si tratta dei risultati di «una organica inchiesta giornalistica fra la gente del mestiere» teatrale commissionata all'autore dall'etnomusicologo Roberto Leydi, allora redattore de «L'Europeo» tra il 1966 e il 1968 nel pieno di quel periodo critico di frattura tra routine tradizionale e insorgenze ribellistiche che caratterizzò, insieme alla vita sociale, anche quella dello spettacolo. Uno degli scritti (un lungo «interrogatorio» a Strehler) era stato pubblicato invece su «Sipario». Di vent'anni successive sono le pagine dedicate alla Centralità dell'attore che Kezich qui pubblica in coda agli altri scritti, rielaborando appunti e considerazioni svolte in pubbliche conferenze. Occorre aggiungere che la riedizione di tutti gli articoli è accompagnata da brevi corsivi aggiunti dall'autore per questa occasione.

Il libro che ne risulta è – come tutti i lavori di Kezich – agile e vitale. Lo stile leggero non tradisce la ricchezza e l'acutezza delle questioni sollevate. Prima fra tutte quella del ruolo e della rilevanza degli attori nell'epoca di una pratica registica ancora per poco trionfante ma sull'orlo di una incipiente crisi d'identità. L'insubordinazione con cui, nel 1966, Tino Buazzelli, attore fra i più grandi per istinto se non per intelligenza critica, si oppose alla dittatura registica, è registrata come un fatto significativo. Fu una contestazione che apparve ad alcuni come il segno di una regressione nostalgica verso un teatro all'antica italiana che non aveva più molto senso vagheggiare; ad altri – e tra questi lo stesso Kezich – sembrò invece un semplice emendamento al protocollo in voga a quel tempo, con la sostituzione possibile della figura onnisciente del regista separato dalla troupe con quella dell'attore che, pur autopromosso al ruolo di regista coordinatore, conservava tuttavia il suo statuto di recitante tra i recitanti.

L'accentuarsi della crisi dei teatri stabili avrebbe mostrato che non era soltanto una questione di organizzazione del lavoro quella che si stava dibattendo, ma anche di vero e proprio potere. Più che i registi dei teatri stabili era l'organizzazione stessa dei teatri a gestione pubblica, di cui il regista era l'emblema prioritario, ad essere messa in discussione. La politicizzazione e la lottizzazione partitica, l'abnorme  proliferazione di funzioni secondarie nell'organigramma degli enti teatrali pubblici, la sommersione dei talenti e dei progetti artistici dentro il pantano degli interessi corporativi dei pur intelligenti amministratori nostrani, avrebbero fatto di lì a poco precipitare la crisi. Alla quale poco poterono opporre personalità purtuttavia forti o intelligenti come quelle convocate e intervistate da Kezich: Gianfranco De Bosio, Franco Enriquez, Vittorio Gassman, Luigi Squarzina e naturalmente Giorgio Strehler.

Particolarmente ampio lo spazio dedicato a quest'ultimo, protagonista  del più clamoroso atto di protesta nei confronti dei teatri stabili quando, nel 1968, abbandonò il sodalizio con Paolo Grassi e, di conseguenza, la direzione artistica del Piccolo Teatro di Milano per intraprendere una breve esperienza ''indipendente'' (1968-1972) in contrapposizione alla gestione corrente del teatro cosiddetto ''pubblico''. Nel frattempo però l'insoddisfazione degli attori nuovi e dei ''nuovi'' registi aveva preso un'altra strada –  a dire il vero non so quanto fertile – sulla scia del Convegno di Ivrea che nel 1967 aveva lanciato il manifesto Per un nuovo teatro. Sarebbe successo che i teatri pubblici non sarebbero morti ma si sarebbero moltiplicati, che i gruppi autogestiti avrebbero in breve tempo nominato nuovi dittatori al posto dei precedenti e la rivolta degli attori sarebbe stata dimenticata per il semplice fatto che gli attori sarebbero apparsi per qualche tempo sopravvissuti inutili o esornativi.

Bisognerà attendere l'ultimo quindicennio del secolo per vedere riaffiorare, dai relitti e dalle pene di un teatro impoverito dalla crisi della regia e dalla miseria di una recitazione sempre più analfabeta, quella ''rivolta degli attori'' che Buazzelli aveva velleitariamente abbozzato. Torneranno, come non potevano non tornare, solitari il più delle volte, talvolta raccolti in piccoli gruppi, balbettando di nuovo testi scritti per se stessi o cercando di ritrovare il bandolo registico di matasse testuali sempre più aggrovigliate, gli attori della nuovissima generazione. In una sorta di nuovo medioevo teatrale riappare credibile quello che Kezich scrive a p. 104: «L'attore è l'unica realtà tangibile dello spettacolo. Perché esista il teatro basta che ci sia l'attore, basta che l'attore non ci sia perché non esista niente. Tutto quello che è venuto dopo l'attore (drammaturgia, messinscena, tecniche, teorie, conferenze, lezioni) è soltanto sovrastruttura». Nel libro questo assioma è sfumato da molte altre considerazioni dialettiche che Kezich lascia dire ai suoi interlocutori e trascrive equilibratamente.

E' vero infatti, ad esempio, che anche il testo vuole la sua parte in commedia. Ma una parte secondaria. Come ha detto giustamente Orson Welles: «la base del teatro è l'attore, e dopo l'attore, il dramma. In quest'ordine». E a chi gli ribatteva: «Non viene prima il testo? L'attore ha la precedenza?», replicava ancora: «Assolutamente. Perché nella storia del teatro il testo è arrivato dopo l'attore» (O. Welles, It's all true, Roma, Minimumfax, 2005, p. 219).


Siro Ferrone


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