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Siro Ferrone

Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore


Bari-Roma, Laterza, 2006, 246 pp., euro 18
ISBN 88-420-7868-9
«Prima dell’apparire di Arlecchino, nelle piazze e sui palcoscenici improvvisati dei teatri effimeri c’erano stati... gli zanni. Personaggi rappresentativi di un’ umanità animalesca, nascosti da maschere bestiali e grifagne, talvolta incorniciate da ispide barbe, vestivano panni di tela grezza, a imitazione degli abiti da lavoro dei facchini, degli operai del porto, o dei campi: erano questi uomini "inferiori" che gli attori buffoneschi volevano irridere, a beneficio degli spettatori cittadini e veneziani in particolare...».

Così dà avvio al suo Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore Siro Ferrone, professore ordinario di Storia dello spettacolo a Firenze, una monografia meritoriamente inserita da Laterza nel suo prestigioso catalogo (pp. 308, euro 18): a voler significare subito, e senza equivoci, che il suo non è un libro sull’eternamente aperta e da sempre irrisolta questione dell'origine antropologica (o folclorica) di questa ultra evocata maschera. Ricordate il Dante di Malebolge, caro a Sanguineti: «Tra‘ti avante, Alichino, e Calcabrina» - cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo: - e Barbariccia guidi la decina...». Siamo in Inferno, c. XXI, vv. 118-120. No, Ferrone vuole studiare soltanto, e per la prima volta a fondo, il primo attore italiano che decise di portare in scena quella specifica maschera e di farne - per tutta la carriera - il suo, esclusivo e gelosamente protetto, personaggio. Siamo agli albori della Commedia dell’Arte, cioè di quel fenomeno collettivo disordinato, pittoresco, eppure prodigiosamente creativo, che impose l’Italia all’attenzione dei popoli di tutta Europa, dalla Scandinavia all’Inghilterra, dalla Russia all’Olanda, dalla Germania alla Spagna e alla Francia tra la fine del Cinquecento a tutto il Settecento, non senza qualche spasimo di dolore del nostro Goldoni, che si batté a lungo per propiziarne il definitivo tramonto.

Questo attore-apostolo dell’arte arlecchinesca è un mantovano (era nato a Marcaria nei pressi del capoluogo il 7 aprile 1557), si chiama Tristano Martinelli e a Mantova morirà, in contrada del Mastino, «di febbre e cataro (sic) in due giorni», l’1 marzo 1630. Ferrone ha frugato in biblioteche e archivi di mezza Europa (il suo maestro, il compianto Ludovico Zorzi, gli ha trasmesso la «febbre quartana» della ricerca) per ripercorrere, tappa dopo tappa, alla luce di pochi e malcerti documenti, una carriera folgorante, e non solo scenica. Tristano esordisce ad Anversa, con suo fratello Drusiano e un manipolo di colleghi, garanti due facoltosi mercanti italiani, tali Rapondi e Gallicani, il 7 settembre 1576, dunque a neppure vent’anni. Poi è la volta di Lione e di qui, grazie ad una traversata che non stentiamo a intuire perigliosa, di Londra: c’è un nuovo arcigno Prefetto (della casa reale) agli Spettacoli, c’è soprattutto la peste (4000 morti solo quell’anno), ma Tristano e i suoi, a teatri pressoché chiusi, riescono a recitare nel centro della city.



Arlecchino, dalle Compositions de Rhétorique
di Tristano Martinelli (1601)
 

Ma che razza di teatro proponeva, nel suo spudorato ardimento, questa decina di giovani, buttatisi allo sbaraglio dalla provincia del Nord Italia (Mantova è un colto, ma pur sempre piccolo ducato) nelle maggiori capitali dell’allora Occidente teatrale? Ne sa qualcosa Enrico III di Francia, «innamorato dei travestimenti e degli apparati spettacolari» che, al suo ritorno a Parigi dalla Polonia per la propria incoronazione, aveva avuto modo a Venezia sin dal 1574 di apprezzare l’abilità degli attori italiani nel «riecheggiare... le storie banali e grossolane a cui erano abituati gli spettatori francesi, esagerando però le scandalose oscenità e l’energia corporea». Eppoi c’era il fatto che quelle «loro storie piene di vitalità e di sesso felice, capaci di scatenare un riso liberatorio e lucroso, erano recitate da donne vere. Niente ragazzini o uomini travestiti, ma donne bene in carne, vistose e seminude...». Invitati dall’Ammiraglio di Francia, monsieur de Joyeuse (un cognome, un programma), Tristano e i suoi si scatenano alla Foire de Saint-Germain, nel quartiere omonimo, nel carnevale 1584. E’ qui che il ventisettenne mantovano mette a punto, una volta per tutte, il suo personaggio.

Con suo fratello Drusiano decide di cavalcare lo scandalo che circonda, come una cupa aureola, la figura dell’attore. Visto che i comici sono considerati diavoli tentatori (e le loro compagne prostitute), visto che il teatro è spesso paragonato ad un vestibolo dell’Inferno, Tristano offrirà allo spettatore questo diavolo e quell’Inferno. Il suo Arlecchino, al centro di una grottesca, esasperata, paradossale rappresentazione dell’Aldilà, verrà promosso Re dei Diavoli. Agirà dunque a capo di una torma di «fantasmi, spettri, demoni, anch’essi mascherati, osceni, rumorosi, vestiti con colori squillanti». Adotterà per l’occasione non il bergamasco delle vallate, tipico dello zanni ex montanaro inurbato, ma il dialetto mantovano, tra il veneto, l’emiliano e il lombardo, arricchendolo tuttavia «di parole latine, francesi, spagnole, imparate lungo la strada, dando vita a cacofonie, allitterazioni, onomatopee, un agglomerato di fonemi più che un tessuto sintattico...».

Di buona statura, agile e flessuoso, Tristano gode di una «muscolatura esplosiva»: è capace di «volare con i piedi sulle spalle di un altro attore, di fare salti mortali, anche rovesciati, di grande effetto, di volteggiare con disinvoltura sui trampoli». Non indossa più la tipica camiciona a larghe falde dello zanni, ma «una specie di tuta aderente, che disegna il corpo atletico». Eppure, astutamente, si ostina in scena ad essere goffo e ferino: è un secondo zanni (in teoria, il meno intelligente dei due servi), si ingobbisce, si curva, si appiatta a terra «dopo ogni slancio aereo»: e ostenta ancora «la maschera animale con due fori rotondi per gli occhi di gatto, la barbetta selvatica, la scarsella, il bastone attaccato alla cintura». Però, quando entra in scena col Capitano, il solito soldataccio sbruffone e codardo, è lui che primeggia, non lasciandosi per nulla intimorire da quell’altro: «che mi puoi tu fare? Pensi davvero che io stimi queste tue bravarie?...».



Partiocolare del dipinto Commedia dell'Arte à la cour
de Charles IX
(1576), di Anonimo fiammingo,
in cui è ritratto Tristano Martinelli
 

Ci è impossibile seguire in questa nostra scheda l’intero percorso attorale di questo mezzo genio, il cui irrequieto vagabondare ha qualcosa dell’apparire e dello scomparire di un lemure nel folto della vegetazione, tra il buio notturno e radi squarci di luce. Ferrone lo tallona da presso: ora è a Madrid, poi c’è traccia di lui in un imprecisato delitto commesso a Verona (di fatto lui e la moglie Cassandra Guantari, di cui facciamo per l’occasione conoscenza, sono ambedue al bando), poi con Drusiano li ritroviamo a Firenze presso i Medici: nel 1598 Tristano, constatando che il fratello e la moglie Angelica, che ha avuto un bimbo da un altro, sono ai ferri corti, e forse ci scappa un altro morto, baratta una protezione sicura con l’ingaggio dei suoi nella compagnia stabile del proprio duca, Vincenzo Gonzaga.

Questa e molte altre, alcune turbinose, altre pateticamente squallide, sono le vicende che caratterizzano l’esistenza di molti attori della prima grande stagione europea, tra Cinque e Seicento (la vita del Molière capocomico, vari decenni dopo, non sarà più pacata: e quando Racine si insinuerà tra gli attori non si rivelerà, neppure lui, uno stinco di santo...). C’è chi finisce ucciso in una taverna (non fu questo il destino del giovane e grandissimo Marlowe, nella Londra di Shakespeare?), c’è chi, come Martinelli, «trasferisce la parte di ”re”, che ha inventato a Parigi, dalla scena del teatro a quella del mondo». Il 2 aprile 1599 Arlecchino-Tristano è nominato dal suo signore, Vincenzo I, sovrintendente dei comici e ciarlatani per tutti i territori gonzagheschi (Monferrato incluso). Quando Enrico IV di Francia decide di sposare Maria dei Medici, scrive a Tristano a Mantova: «Arlechin, essendo venuta la famma vostra sino a me, et della bona compagnia de comedianti che voi avete in Ittalia, io ho desiderato farvi passare i monti e tirarvi in questo mio regno...». Dall’Inferno della Foire al Paradiso, o meglio al Parnaso delle nozze regali tra Francia e Italia. Dopo Tristano - osserva Ferrone nella premessa da cui siamo partiti - altri Arlecchini ci hanno onorato nel mondo. L’ultimo si chiama Ferruccio Soleri, sarà a settembre in Cina a «mostrar la sua perizia...».

 

Guido Davico Bonino (Copyright "La Stampa" 2006)


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