Giuliana Rossi
I miei anni con Carmelo Bene
Firenze, Edizioni della Meridiana, 2005, pp.120, Euro 12,90
ISBN 88-87478-79-1
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Si sono scritti e si scrivono molti libri e saggi e articoli su Carmelo Bene. Molti anzi amano chiamarlo confidenzialmente "Carmelo" (non si è mai visto che si scriva di Goldoni chiamandolo Carlo, di Stanislavskij apostrofandolo come Costantino o di Beckett dicendolo Samuel), e ne scrivono riempiendo pagine e pagine di elucubrazioni che sono l'involontaria parodia, in una rincorsa ridicola alla filosofia nobilitante, dei suoi geniali paradossi: geniali in quanto indimostrati e apodittici, senza capo né coda, ma emozionanti. Un artista della scena intraducibile spesso a parole ha dato voce a molti provinciali con velleità teoriche, a molti professori in cerca di legittimazione, a molti vuoti cervelli in cerca di autostima. Gran parte della bibliografia su di lui è carta straccia, insopportabile ingombro nelle biblioteche.
Questo leggerissimo libro di colei che fu la sua prima moglie, madre del suo unico e morto figlio, oltre che appassionata compagna di teatro, è invece necessario. Non cercatevi un discorso rigoroso, una narrazione continua e distesa, uno stile bello e rotondo oppure mimetico dell'arte di Carmelo Bene. In queste pagine si procede per lampi di memoria tenuti insieme dal fuoco di una passione diventata pazienza e dolcezza. E non cercatevi lo slancio ammirativo o autonobilitante di chi può affermare: "C'ero anch'io". E neppure lo sgarbo dissacrante di chi, invece, può recriminare da lontano su fatti e parole che un tempo ferirono. No, lo scritto di Giuliana Rossi, adesso anche lei scomparsa, miscela con intelligenza e sensibilità le notizie della vita con Carmelo Bene e quelle sull'arte e il mestiere teatrale, intrecciando schizzi brevissimi dedicati ai personaggi d'un tempo con notazioni ora malinconiche e ora umoristiche sul gran mondo del teatro d'avanguardia dei primi anni Sessanta.
Giuliana Rossi e Carmelo Bene
Procedendo per frammenti, l'autrice non cade mai nella retorica commemorativa (straordinarie per castità stilistica e sobrietà emotiva le pagine dedicate alla morte del piccolo Alessandro e alla "sobria" partecipazione del padre), semmai disegna con pochi tratti di penna qualche caricatura indimenticabile (la famiglia leccese dell'artista; i comportamenti timidi di Carmelo Bene "imbranato" e piccolo-borghese nella Roma degli artisti; i figurini e le figurine del demi-monde dello spettacolo italiano; le meschinità di artisti di fama), e in un magma memoriale continuamente minacciato dalla notte del tempo riesce a fare galleggiare segmenti d'immagini e faville di vita che meglio di discorsi continui e addottorati consentono di capire, più che le teorie di un artista magistrale, la fragilità infantile e le invenzioni disordinate di un talento allo stato nascente.
Bene all'Accademia d'Arte drammatica Silvio d'Amico
Questo agile libretto, leggibile come una sequenza di flash piuttosto che come una tessitura continua, è il documento di una sensibilità e di una intelligenza artistica tanto più acute quanto meno sottoposte al filtro logico-razionale. Ma anche - cosa sorprendente in un libro dedicato ad un artista amorale, lutulento, smisurato, privo di autoironia come Carmelo Bene - il documento di molte qualità sottili dell'autrice: finezza d'osservazione, leggerezza e equilibrio nell'esercizio della pietà e della critica. Da queste qualità discende una narrazione garbata e attraente. Attraverso la quale anche gli storici del teatro potranno cavare qualche utile: le osservazioni di Giuliana Rossi consentono infatti di scoprire i "vizi" che, dal basso, furono all'origine di molte di quelle creazioni che i Bouvard e Pecuchet della critica continuano a credere provenissero dallo spirito prometeico del nostro. A dimostrazione che molto teatro - soprattutto quello grande - nasce più dalle patologie che dal cervello. Anche nel caso di quelli che noi consideriamo i Grandi.
di Siro Ferrone
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