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Il patalogo 28
Il ruolo della regia negli anni Duemila

A cura di Franco Quadri

Milano, Ubulibri, 2005, pp. 304, euro 55
ISBN n.n.

L'attesa pubblicazione del Patalogo, il prezioso annuario del teatro curato da Franco Quadri, finisce per volgere in positivo i crucci di ogni stagione, allineando con cura e attenzione tante informazioni e tanti documenti in grado di dare al lettore, all'appassionato o allo studioso la giusta misura della creatività scenica, insieme ad innumerevoli spunti di riflessione critica. È apprezzabile la classificazione interna del volume, che si snoda attraverso gli ampi dati del «Repertorio di un anno», l'elenco degli spettacoli prodotti e rappresentati in Italia, a cura di Barbara Panzeri e Giulia Mirandola, con la collaborazione di Valeria Castorina e Dario Rancati, il resoconto del referendum dei Premi Ubu 2005, la rassegna delle iniziative culturali e della produzione editoriale teatrale; altrettanto esaustivo è il quadro dei Festival nazionali e internazionali, seguiti rispettivamente da Leonardo Mello e Massimo Marino.

Lo «Speciale 2005», coordinato da Quadri e da Renata Molinari è dedicato al Ruolo della regia negli anni Duemila. È un ragionamento polifonico sulla trasformazione della funzione registica in relazione all'evolversi della comunicazione scenica; l'orizzonte di riferimento è molto ampio, perché spazia dal confronto con il sistema della creatività globale al rinnovamento delle drammaturgie e delle tecniche. L'introduzione di Quadri propone tra i modelli possibili la recente scelta di Romeo Castellucci, in veste di direttore per il 2005 della Biennale-Teatro di Venezia, che ha dedicato il festival alla produzione di gruppi performativi per lo più sconosciuti e per lo più legati alla sfera dell'arte figurativa; nello stesso tempo rileva come sia cresciuto l'interesse delle istituzioni estere verso l'attività delle nuove leve italiane.

Per fare i conti con la scena dell'«avvenire» il Patalogo 28 pubblica un nucleo forte d'interventi ad ampio raggio; si comincia da Renato Palazzi, che sottolinea l'accentuarsi della «distanza» di stile tra esperienze neppure troppo lontane l'una dall'altra: ad esempio tra Ronconi o Castri e Pippo Delbono. Ancor più è significativa la rottura avvenuta sul versante della concezione rappresentativa: Palazzi rammenta con convinzione l'«effetto-Pina Bausch» sul terreno della destrutturazione delle forme teatrali.

Colette Godard, invece, si rammarica per l'invasione delle soluzioni televisive, che hanno deformato l'efficacia dell’immagine scenica, al punto da preferire un ripiegamento strategico verso una testualità più adatta ad esprimere i tratti della contemporaneità. Renate Klett ricorda come i palcoscenici tedeschi siano ancora governati dallo strapotere dei registi, che però agiscono come se il teatro fosse un ambiente simile a quello dell'alta moda. Enrico Fiore sposta, invece, l'attenzione dal regista-demiurgo all'artefice-mediatore. Jean Jourdheuil ripropone due tipologie direttive, la prima propone il regista-pittore, la seconda il regista-direttore del gioco, mentre riconosce che «l'idea del teatro come laboratorio di sperimentazione sociale è tramontata».

Sul versante del confronto tra esperienze storiche e statuti artistici si pongono gli interventi degli studiosi e dei teorici della teatralità. Claudio Meldolesi, riconoscendo come necessaria la normatività registica, sollecita gli artefici delle nuove generazioni a non disperdere la «coscienza dell'habitat comune», perché dalla coesione del lavoro artistico provengono ancora le «risorse per evitare un congelamento» inattuale. Anche Georges Banu sottolinea l'indissolubilità dei diritti della regia: pur accettando che si cambino le abitudini, non crede possibile che si declassi o si annulli l'importanza della funzione del metteur-en-scène. Siro Ferrone evidenzia l'emergere di «solitudini creative», mentre avanza la propensione verso le forme di «masterizzazione» culturale, tali da schiacciare lo spettacolo dal vivo e da svuotare d'importanza il ruolo del Regista-Maestro; la crisi riguarda nel complesso il sistema produttivo, raggelato in una tendenza al garantire un'incongruente stabilità.

Per Massimo Marino il regista è ormai scomparso, oppure non c'è mai stato. Invece, Oliviero Ponte di Pino suggerisce al «giovane regista» di applicarsi alla soluzione di un rompicapo numerico giapponese, magari per adoperarlo come modello di messinscena.

Luca Ronconi ragiona sulla diversità del caso italiano, rispetto ad altre situazioni europee, rivendicando la positività di ogni mutamento, compreso quello che può apparire catastrofico. Antonio Latella pone al centro della sua lettera-riflessione la centralità dello spettatore, che deve suggerire al regista di agire per il «bene del teatro», vale a dire per una collettività vasta e compartecipe. Enzo Moscato accomuna sul piano di una sinergia orizzontale l’azione del drammaturgo e del regista, definito un non-resistente. Peter Kammerer, poi, preferisce rivolgere delle domande «aperte» agli artefici della scena. Jan Fabre coglie l'occasione per riesaminare i principi del proprio metodo di lavoro. Jon Fosse parla di teatro-relazione, in cui il testo, la regia e l'attore hanno la medesima importanza.

Completano la carrellata le considerazioni e i pensieri di Annalisa Bianco e Virginio Liberti sulla necessità di continuare a fare teatro con uno sguardo sul mondo delle arti figurative; Jean-Paul Manganaro pensa a un teatro che sia in grado di garantire la sua stessa contemporaneità; Romeo Castellucci allinea una serie di pensieri-proposta sul tema dell'identità dell'artista. Infine, Renata Molinari conclude sui toni della «nostalgia» per ciò che è stato, ripercorrendo, a ritroso, ma con lo sguardo verso il futuro, un cammino contrassegnato da felici incontri e da necessari ritorni.




Carmelo Alberti


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