Il numero 136 di Segnocinema, lultimo dellanno 2005, si apre con un breve saggio che ripercorre le tappe della saga dei morti viventi di George A. Romero. Allindomani delluscita del quarto episodio George A. Romeros land of the dead (La terra dei morti viventi di George A. Romero), Bellavita si interroga sui molteplici significati che la tetralogia ha sviluppato e proposto durante le varie fasi della sua realizzazione, dal lontano 1968 al 2005. Durante quasi un quarantennio i ghouls romeriani si sono fatti strumento di analisi della società americana e occidentale, restituendo allo spettatore una tipologia di orrore che sembra sempre più appartenere agli uomini e soltanto per caso ai mostri. Una sorta di grande punto di vista sulla mostruosità del genere umano quello di Romero, più direttamente riscontrabile nellultimo film della saga, quello post-11 settembre: «lo spazio circoscritto, limpossibilità di un ordine da ristabilire. Ma soprattutto quella certa urgenza di realtà che appartiene a tutti i suoi film: una realtà privata, da buon vicinato, e insieme una realtà grande, pubblica. Che potremmo tranquillamente definire "politica" (…). Limitiamoci allora a dire che il suo cinema ha saputo raccontare la realtà " più totale ed assoluta" di quattro decadi, punteggiate dalla sua tetralogia dedicata ai morti mangiatori di carne umana fresca» (Bellavita, p. 4). E chiaro dunque che questa componente politica sia andata con gli anni acuendosi, nutrendosi di un realismo che ha non soltanto preservato il genere (lhorror legato al war-movie), ma ha anche innalzato il valore cinematografico della rappresentazione. Come scrive Bellavista a proposito di Su Land, «quando escono a poco a poco dal fiume, con gli occhi che emergono dal pelo dellacqua, ripresi dallalto come una moltitudine e poi frontalmente come un Quinto Stato (nella scena visivamente più bella e importante del film), sono cinema allo stato puro. E hanno il sapore di war-movie e di horror, di film civile e di documentario. Perché fare cinema, alla fine, è stato latto più realmente politico di George A. Romero» (Bellavita, p. 8).
Il secondo saggio è dedicato allanalisi di uno dei film più belli usciti nellanno appena trascorso: Eternal sunshine of the spotless Mind (Se mi lasci ti cancello) di Michel Gondry, tradotto in italiano con linsensato e fuorviante titolo Se mi lasci ti cancello. In realtà, come osservano giustamente Bandirali e Terrone, il film andrebbe rititolato "Se mi cancelli non ti lascio" oppure "Gli eterni segni della mente senza gioia". Non è una puntualizzazione da poco, questa, perché i due titoli rispecchiano a pieno quello che è il contenuto tematico e formale del film: non la cancellazione della memoria, ma la sua persistenza: «Se mi lasci ti cancello è dunque a pieno titolo un testo fantascientifico, trattando uno dei nuclei elementari del genere: la resistenza dellumano alla macchina, della sensibilità alla logica. Questo principio tematico – la macchina che non funziona perfettamente – si riflette sulla struttura narrativa» (Bandirali, Terrone, p. 10). Attraverso unanalisi attenta e originale della costruzione formale del film (soprattutto il montaggio, perché «la resistenza dellumano alla macchina si esprime nella tessitura delle immagini mentali, generate dallantagonismo di differenti fattori: il ricordo, la percezione, la cancellazione, linvenzione onirica») Bandirali e Terrone ripercorrono analiticamente gli snodi e le sequenze più importanti del film, dal prologo fuorviante al finale astratto, dimostrando come il film si apra ad una complessa riflessione sul tempo (quello vissuto e quello della memoria) in cui i due protagonisti Joel e Clem sembrano destinati a perdersi e a ritrovarsi eternamente.
Lo speciale è dedicato ai cinquantanni della Nouvelle Vague ed è la prima parte di un approfondimento che proseguirà anche nel prossimo numero. Si parla naturalmente di uno dei più importanti fenomeni che hanno segnato la storia del cinema, ma molto intelligentemente lo speciale non è apologetico, e sfrutta piuttosto il cinquantesimo anno della Nouvelle Vague (il suo battesimo è "anticipato" al 1955, con il film di Roger Vadim Et Dieu…crea la femme, interpretato da Brigitte Bardot) come pretesto per riflettere criticamente sulla vera portata del gestus rivoluzionario che i cineasti francesi cresciuti alla scuola di militanza critica di Bazin operarono tra i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso. I saggi che animano il dibattito seguono fondamentalmente due direttrici: la prima è una meditazione sul senso della Nouvelle Vague in quanto sistema formale, la seconda è unanalisi delle conseguenze della Nouvelle Vague sul modo di fare critica, cinema popolare, sullevoluzione e linvoluzione dello spirito cinéphile. Questo seguendo unardita regola: «provare a trattare la Nouvelle Vague senza paura di rompere il giocattolo e senza timori reverenziali, cioè allo stesso modo in cui la Nouvelle Vague ha trattato il cinema che lha preceduta. Siamo ancora capaci di disobbedire al cinéma de papa, anche quando il papà ha fatto la rivoluzione?» (p. 16).
Una prospettiva critica certamente interessante e a suo modo coraggiosa quella della rivista, non di meno però ardita e rischiosa. Se in un certo senso gli interventi di A. Preziosi (sulla pragmatica e la sintassi), di Roberto Chiesi (sul jump-cut che Godard "inventa" per À bout de souffle e Pierrot le fou), di Flavio De Bernardinis (sul mito della tecnologia leggera), di Davide Turrini (sullimpegno politico) e di Barbara. Grespi (sullumorismo) sembrano centrare il segno di un discorso critico che bilancia la sensibilità contemporanea e lapprofondimento storico, qualche pretestuoso azzardo sembra presente nellintervento di Gianni Canova, Lestetica del parricidio e il fantasma dello stile in cui lautore riflette sullimportanza formativa di un preciso atteggiamento critico (lirriverenza, la mancanza di rispetto) dei giovani Truffaut, Godard, Chabrol: è vero che la componente distruttiva fu parte importante della formazione di questo gruppo di autori, ma una cosa è la critica, unaltra è la prassi. Qualche dubbio sorge anche leggendo le "volutamente irriverenti" dieci schede su registi e film-cult della Nouvelle Vague. Più che altro per un contraddittorio senso di partigianeria che si scontra con le premesse dellintero discorso. Per intenderci, si può anche massacrare Truffaut e Jules et Jim e santificare Godard in ogni sua manifestazione, ma non sembra poi così coerente con lo spirito irriverente annunciato nelle premesse. A meno che non ci sia un tacito senso di riverenza nei confronti del regista di À bout the souffle…
Marco Luceri
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