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Segnocinema
Rivista cinematografica bimestrale

Anno XXV, n. 135, Settembre-Ottobre 2005, euro 7,00
Questo numero di "Segnocinema" si apre con due saggi molto interessanti.

Il primo, dal titolo Eddie Romero: il filippino che conquistò Hollywood è un interessante e completa panoramica critica sulla vita e la carriera del regista Eddie Romero, nato nel 1924 e campione dei b-movies tra le native Filippine e Hollywood: "Scrittore a dodici anni, sceneggiatore a sedici, regista a ventitre, Eddie Romero ha bruciato le tappe in una frenetica corsa che lo ha portato ad accumulare una filmografia imponente e multiforme che accomunato scienziati pazzi, mostri alla clorofilla e impegnate saghe familiari generazionali. Con un tratto in comune: l’impegno professionale e un’imbattibile capacità di trovare tutto interessante e renderlo interessante". L’autore Rudy Salvagnini ripercorre le molteplici tracce del percorso artistico di Romero partendo dai precoci esordi, avvenuti alla fine degli anni Quaranta, in un periodo di grande espansione per il cinema filippino: il consolidamento dello studio system, con le grandi case produttrici che mettono sotto contratto registi e attori, come a Hollywood; è del 1947 il suo primo lungometraggio, Ang Kamay Ng Dyyos, anche se ben presto Romero entra in contatto con la realtà cinematografica occidentale e i suoi idoli registici, come David Lean, ad esempio.

Il risultato di questa fase è l’inizio del sodalizio con la Columbia e il film Cavalleria commandos (1961) che costituisce la formula su cui si svilupperà in seguito gran parte della produzione romeriana: film per il mercato internazionale, ma fermamente inseriti nel contesto filippino che Romero conosce e vuole usare, interpretati da star hollywoodiane un po’ in ribasso (in questo caso John Agar). Appartengono al genere di guerra anche i successivi La sfida dei marines (1963), Ora X commandos invisibili (1964), L’armata delle belve (1965) e Passionate strangers (1966), in cui spesso si narrano vicende belliche che hanno come teatro le Filippine durante la seconda guerra mondiale, nel pieno dello scontro tra americani e giapponesi. Manila open city (1968) rappresenta uno dei film migliori del primo Romero: teso, conciso, realistico, senza nessuna concessione all’exploitation, segna però anche la fine della fase bellica nel cinema di Romero e anche il suo incontro con John Ashley, divo di serie b (specializzato in juvenile deliquents, horror e beach movies) che in quegli anni sta risalendo la china.

Romero lo inserisce come protagonista della sua celebre trilogia horror ambientata nella Isla de sangre: Terrore sull’isola dell’amore (1968), Mad Doctor of Blood Island (1969) e La bestia di Sangue (1970). Sono film che hanno un mix di esotismo, cliché, exploitation parzialmente innovativa, locations attraenti, melodramma, tensioni psicologiche, mostri. Dopo il grande successo di questi film il duo Romero-Ashley cerca nuove spinte creative che portano verso il sodalizio con Roger Corman. Donne in catene (1972) è il primo film del nuovo corso, in cui Romero racconta con più gusto rispetto ai suoi horror e con un senso dell’ironia assente dai suoi film bellici, finalmente libero di sprigionare il suo humor nero. Su questa linea dunque si sviluppano i film della prima metà degli anni Settanta: Il crepuscolo della scienza (1972), The woman hunt (1972), Beyond Atlantis (1973), Savage Sisters (1974) e Sudden Death (1975).

Le tematiche sotterranee di Sudden Death dimostrano come Romero cominci a sentire ormai insofferenza per i b-movies del mercato internazionale. Decide allora di fare un breve rientro in patria, dove torna a contatto con un cinema maturato. Crea allora nella seconda metà degli anni Settanta quei film più personali che il mercato internazionale probabilmente non avrebbe mai accettato. Tra essi, quello che i più considerano il suo vero grande capolavoro, Ganito Kami Noon, Paano Kayo Ngayon? (1976), una picaresca commedia ambientata nel mondo candido dei contadini filippini che attraversa il periodo tra l’occupazione spagnola e quella americana tra ‘800 e ‘900.

Ristabilito il suo ruolo nel cinema nazionale, Romero torna sulla scena internazionale con una coppia di film d’azione girati ambedue nel 1988, Whiteforce e Inferno in Vietnam, prima di dedicarsi quasi interamente alla produzione televisiva con Noli me tangere, in 13 episodi dal romanzo autobiografico dell’eroe nazionale filippino Josè Rizal, e Diwa, di cui ha diretto un episodio nel 2002. Il saggio si conclude con una breve intervista a Romero, la filmografia completa e un'utilissima mappa sulla reperibilità dei suoi film per l’home video.

Il secondo saggio, di Matteo Bisato, è dedicato a un curioso, ma importante evento che accomuna le carriere di due registi molto diversi tra loro. Si tratta della trasposizione cinematografica di uno de I quarantanove racconti di Ernest Hemingway, I sicari (The killers, tradotto in Italia anche con il titolo Gli uccisori), realizzata in due nazioni allora nemiche (USA e URSS), da Robert Siodmack e Andrej Tarkovskij, in momenti differenti delle loro rispettive carriere.

Il problema del rapporto tra cinema e letteratura è stato ed è da sempre uno dei dibattiti maggiormente accesi nella storia della critica cinematografica, ma nel breve saggio di Bisato il problema, nelle sue linee generali, viene abilmente eluso. Dopo una breve sinossi del racconto di Hemingway, il critico ci informa di quelle che sono state le vicende produttive che sono state alla base della realizzazione delle due opere. Particolare interesse suscita il lavoro preparatorio fatto, prima sul teso e poi sul set, da Tarkovskij, che nel 1956 aveva scelto il racconto come soggetto di Ubiitsy, il cortometraggio con cui avrebbe poi ottenuto il diploma di terzo grado nella più importante scuola di cinema russa. Diverso il percorso di Siodmack: la piccola storia scritta da Hemingway è troppo breve per diventare un film, ma sufficientemente interessante per esserne lo spunto, ed è quello che accade in I gangsters (The killers, 1946), in cui il primo quarto d'ora mette in scena il racconto, mentre poi il resto del film illustra gli antefatti che hanno portato alla situazione descritta da Hemingway.

Attraverso un'analisi attenta e rigorosa sul montaggio e la composizione di ogni singola inquadratura dei due film, Bisato raggiunge un'importante conclusione:"Ambedue portano sullo schermo più o meno fedelmente il racconto, ma se Siodmack trova nelle pagine di Hemingway le fondamenta che stanno alla base stilistica per la creazione di un contributo originale all'interno del filone noir, per Tarkovskij la medesima storia è la partitura ideale nella quale poter inserire tra le righe la propria insofferenza per la situazione che lo circonda (p. 12)".

Siodmack sviluppa per lo più fedelmente nell'azione scenica i movimenti e la tensione contenuti nel racconto letterario, riportando pari pari il dialogo tra i due gangsters e il barista George. Il regista americano si muove cioè nella migliore tradizione del noir americano "classico"; a tal proposito ricordiamo che alla sceneggiatura de I gangsters collaborò John Huston, che cinque anni prima aveva diretto il capostipite del genere, Il mistero del falco, riportando moltissimi dialoghi dall'omonimo libro di Dashiell Hammett, senza cambiarne una virgola.

A Tarkovskijinvece non interessa il noir, cerca solo di utilizzare la storia per dire tra le righe qualcos'altro; il suo intervento personale sul testo è più marcato, grazie all'aggiunta di elementi extratestuali:"Una piccola scena, una piccola aggiunta, ma dal grande significato (anche pensando al futuro del regista e ai suoi pessimi rapporti con il regime sovietico). Un inno alla libertà. Ecco che i gangsters non sono più due semplici criminali, ma i simboli del sopruso, ecco che si comprende la reazione rabbiosa e non spaventata di George, ecco che gli occhi di Adamssono quelli di un'intera nazione, legata ed imbavagliata (p.14)". Secondo Bisato dunque in questo breve cortometraggio degli inizi sono già contenute in nuce alcune importanti tematiche che poi il grande regista russo svilupperà negli anni a venire.

Questo breve saggio, nella sua completezza e originalità, con la sua analisi di alcuni momenti filmici considerati "marginali", è un piccolo, ma importante contributo al disvelamento di quelle differenze strutturali che intercorrono storicamente tra il cinema narrativo classico e il cinema d'autore moderno.

Lo speciale di questo mese è dedicato, come è di tradizione per "Segnocinema", a un bilancio finale della stagione cinematografica 2004-2005, con le schede critiche di tutti i 390 film che sono stati distribuiti nell'anno sul territorio italiano, una mappa completa ed esaudiente di tutto ciò che di cinema si è visto nelle sale italiane.

In apertura la consueta "classifica" interna alla redazione della rivista con i 5 film preferiti dai critici di "Segnocinema": Million Dollar Baby di Clint Eastwood è il miglior film dell'anno (con 18 citazioni), seguito da Ferro3 di Kim Ki-Duk (13 citazioni), quasi alla pari con Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry (12 citazioni); un altro film coreano al quarto posto, Old Boy di Park Chan-Wook, a pari merito con un altro film di Ki-Duk, La Samaritana (7 citazioni). Al quinto posto il primo italiano, Paolo Sorrentino con Le conseguenze dell'amore (6 citazioni).

Non c'è dubbio che la classifica redatta da "Segnocinema" rifletta in gran parte il meglio della produazione cinematografica di quest'anno, a partire dalla splendida classicità del film del "vecchio" Eastwood, che con Million Dollar Baby ha segnato la stagione più di ogni altro; significativa la presenza nei fab 5 di ben tre film coreani, a testimonianza del periodo d'oro che da un punto di vista creativo e produttivo sta vivendo questo Paese dell'Estremo Oriente, con i due capolavori del suo maestro riconosciuto Kim Ki-Duk, Ferro3 e La Samaritana, a cui si affianca Old boy, dell'emergente (si fa per dire) Park Chan-Wook. Tra gli italiani indiscutibile la scelta de Le conseguenze dell'amore, il bellissimo film di Sorrentino, interpretato da quello che ormai possiamo considerare il migliore attore italiano contemporaneo, e cioè Toni Servillo. Da non trascurare anche alcuni film, che pur non essendo nella top 5, possono essere annoverati tra i migliori in assoluto della stagione: Collateral di Michael Mann, 2046 di Wong Kar-Wai e Storia di Marie e Julien di Jacques Rivette.


Marco Luceri


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