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Segnocinema
Rivista Cinematografica Bimestrale

Luglio - Agosto 2005, a. XXV, n. 134 € 6,00
Ci sono film che vengono liquidati in fretta dai critici, spesso senza essere visti: si tratta dei “filmetti”, genere che attraversa la cinematografia contemporanea senza lasciare traccia evidente. Terrone e Bandirali si occupano, nella sezione Saggi che apre «Segnocinema» n. 133, di queste commedie (del tipo Tutti pazzi per Mary, School of Rock, Austin Powers – La spia che ci provava), quasi ignorate dalle elite acculturate, che ad un più attento esame permetterebbero di rintracciare alcune caratteristiche formali capaci di riscattare «l’apparente mediocrità della superficie». I due critici delineano alcuni dei tratti essenziali del genere: funzione del soggetto, centralità della recitazione, l'eloquenza scenografica, il passo indietro della regia, ed altri elementi che trovano immediata esemplificazione nella piccola ma significativa filmografia di dieci “filmetti” posta a fine articolo (da Amore a prima svista a Tutte le ex del mio ragazzo).

La parte centrale della rivista è dedicata a Salò, ripercorrendo una serie di anniversari trentennali: dal 1945, anno in cui è ambientato il film, al 1975 (anno di realizzazione), fino al presente, il 2005, dove il film non ha perso ancora la sua forza eversiva e inquietante. Il film di Pier Paolo Pasolini rappresenta un caso unico nella storia del cinema italiano e non solo, la cui elaborazione è probabilmente da mettere in relazione agli Scritti corsari, ed alla polemica contro la mercificazione sociale e culturale in cui andava indirizzandosi il bel paese nella prima metà degli anni Settanta. Il sentimento di Pasolini alla vigilia della preparazione del film era caratterizzato da una forte polemica nei confronti della società italiana. Una frase in particolare – come suggerisce Roberto Chiesi nel suo intervento – sembra particolarmente rilevante a proposito: «L’Italia di oggi [quando scrive è il 18 luglio 1975] è distrutta esattamente come l’Italia del 1945».

Se è stata da più parti criticata la scelta di Pasolini di ambientare gli incontri fra libertini durante la repubblica di Salò e di politicizzare il discorso di De Sade, è innegabile che il film si presenti quale feroce critica e, allo stesso tempo, sorta di «svelamento dei meccanismi a cui la società dei consumi aveva portato i rapporti tra le persone» – come afferma Giuseppe Bertolucci nell'intervista riportata dallo speciale.

Forse è proprio Salò il film più attuale di Pasolini (insieme per inverso alla Ricotta) dove si condensano tutte le profetiche intuizioni sulla distruzione e mitopoiesi della società italiana operata dai nuovi mezzi di comunicazione di massa. Pasolini seppe vedere nella televisione degli anni Settanta - due reti di natura pedagogica - tutte le abiezioni della televisione di oggi e le modificazioni che il mezzo sarebbe riuscito ad imprimere sull’antropologia dell’italiano: «Il modello umano televisivo è sempre più, il piccolo borghese, l’ipocrita, il conformista» (parole di Pasolini riportate nel contributo di Chiesi). Televisione che, come disse lo stesso poeta, fece ciò che il fascismo non riuscì: modificare e annichilire la cultura italiana livellando e distruggendo la ricca e frastagliata geografia sociale e antropologica che rappresentava la ricchezza del paese. Pasolini lo definì «genocidio antropologico».

E i fatti daranno ragione a lui, alle sue critiche, degne di uno dei più grandi moralisti (termine che purtroppo ha assunto quasi esclusivamente accezione negativa) della storia d’Italia.

Lo speciale raccoglie dieci interventi, di cui tre interviste, tesi a penetrare le zone oscure che circondano questo film. Gli atteggiamenti di fronte a Salò possono essere di tale disorientamento, che in alcuni casi si assiste al distacco della maschera del critico, il quale resta semplice spettatore di strada, incapace di rispondere al film.

Cherchi Usai nel suo intervento rivendica il diritto di chi si rifiuta – non il suo caso – di vedere Salò, proprio perché il film tocca profondamente i limiti della moralità di ciascuno. Incontriamo immediatamente un caso del genere attraverso il racconto di Pupi Avati, il quale afferma di non aver mai visto, e mai vedrà, il film di Pasolini, poiché lo ritiene un film mortuario, in cui si respira l’estrema violenza che segnò la morte del poeta. Avati riferisce dell’incontro con Pasolini, della sceneggiatura, che, pensata inizialmente per un altro genere di film, avrebbero dovuto riscrivere insieme (un primo soggetto era stato steso da Claudio Masenza, Antonio Troisi e lo stesso Avati sotto l’influenza del filone boccaccesco negli anni Settanta), e delle insolite casualità o causalità che si celano dietro alla realizzazione del film (un incontro a cena fra Avati e Pasolini). Salò fu certamente anche una reazione allo sfruttamento commerciale della “trilogia della vita” (Decameron 1971, I racconti di Canterbury, 1972, Il fiore delle mille e una notte, 1974), e la sceneggiatura, nelle mani di Pasolini, cambiò completamente.

Terrone, le cui analisi procedono sempre di pari passo all’esposizione delle prassi metodologiche intraprese, intende spiegare il sistema estetico di Salò, attraverso l’analisi dei riferimenti culturali di cui è costellato il film: letteratura, pittura, musica, cinema. Il più evidente è certamente il romanzo di De Sade, che può essere analizzato da diversi punti di vista: la relazione che il film e il romanzo intrattengono con il soggetto (e non i termini della traduzione intersemiotica); il diverso atteggiamento nei confronti degli eventi narrati (nel romanzo freddo e neutrale, nel film più problematico, oscillante fra l’aderenza allo sguardo dei carnefici e la reazione agli eventi); il giudizio sull’opera da cui il film è tratto, reso esplicito dalla bibliografia posta alla fine del film. Salò è uno dei pochi esempi nella cinematografia che si configura esplicitamente anche come saggio di natura filosofica, strumento d’espressione del pensiero del regista.

Roberto Chiesi individua alcune delle finalità politiche del film elaborate dal regista, e, allo stesso tempo, chiarisce come Pasolini voleva fosse visto Salò: con lo stesso atteggiamento che si dovrebbe avere davanti ad una sacra rappresentazione, che non deve essere capita, ma percorsa e attesa.

 

Riccardo Castellacci


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