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I miei Shakespeare

A cura di Franco Quadri

Milano, Ubulibri, 2002, p.151, euro 12,00
ISBN 887748229-X
Il volume raccoglie (integrandole con una intervista a Peter Zadek) le trascrizioni degli incontri sulle messinscene di Shakespeare che Franco Quadri ha coordinato, presso la Biennale di Venezia, prima in occasione dell'allestimento dell'Otello di Nekrosius (marzo 2001), e quindi, nella stagione successiva, dell'Amleto di Peter Brook.

Svoboda, Stein, Nekrosius, Cecchi, Brook, Zadek: cinque protagonisti della scena del Novecento, uno scenografo e quattro registi che hanno proposto e propongono letture divergenti dell'opera del grande drammaturgo, e che nel corso della loro stessa carriera sono ritornati più volte sui drammi dell'inglese realizzando allestimenti molto differenti a seconda delle epoche.

Il filo rosso che accomuna tutto questo variegato sforzo interpretativo è la volontà, comune a tutti gli intervistati, di tenersi lontano dalla messinscena "prevista", dall'oleografia, dalla finta tradizione dello scontato.

A parte questo, infatti, è difficile trovare punti di contatto tra la logica vagamente brechtiana di Stein e il simbolismo onirico di Nekrosius: decidere cosa è convincente e condivisibile nei loro spettacoli comporta, per il critico, l'umiltà di riconoscere che alla scientificità dell'analisi si sovrappone l'ineludibile gusto personale. E il discorso si fa ancora più complesso guardando ai quasi sessant'anni di allestimenti shakespeariani di Brook; un cammino di ricerca che non può essere ricostruito esaurientemente nella quindicina di pagine del suo colloquio con Quadri. E infatti il curatore ha avuto l'intelligenza di mantenere una posizione defilata, di evitare la forma saggio mantenendo il volume nel formato più agile di una ben curata raccolta di materiali. Ed è auspicabile che in questo senso venga 'usata' questa antologia di interviste, non solo da parte di chi studia teatro ma soprattutto da chi vuole mettere in scena Shakespeare.

Aldilà della maggiore o minore felicità delle loro proposte, le persone che hanno parlato alla Biennale del loro lavoro hanno dimostrato quale miniera di possibilità la drammaturgia dell'inglese offra ancora alla sperimentazione. E questo dovrebbe esortare a evitare, una buona volta, la riproposta insulsa di attardate regie "di orchestrazione stilistica " (per dirla con Claudio Meldolesi) che cercano di riesumare l'antica tecnica grandattoriale focalizzata sul lavoro dei protagonisti, nonostante che gli attori impiegati appaiano decisamente sprovvisti delle doti espressive che i testimoni d'epoca attribuivano a Modena, Rossi, Salvini, o Zacconi.
di Paolo Albonetti


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