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Cristina Jandelli

La scena pensante
Cesare Zavattini fra teatro e cinema


Alcuni passi dall'Introduzione

Considerare unitaria l'opera di Zavattini è ormai più che una fertile ipotesi di lavoro. Lo scrittore risponde infatti a questo trattamento restituendo di sé un'immagine di integrità quasi monumentale. E' il meno che c'era da aspettarsi da un intellettuale che ha attraversato il Novecento con una coerenza cristallina, andando a riascoltare l'eco di vecchie idee e innestandole sulle nuove da un settore all'altro della cultura, dell'informazione e dello spettacolo in un'opera di giardinaggio immaginativo fecondissimo. Zavattini risponde sempre alla stessa maniera, schierandosi dalla parte delle avanguardie storiche e di quella problematica avanguardia di metà Novecento che è stata il neorealismo, percorrendo infine l'età delle neoavanguardie degli anni Sessanta e Settanta con un entusiasmo smorzato solo dalla malinconica consapevolezza del già detto - ovviamente dallo Zavattini di venti, trenta, quaranta anni prima - che diventa ogni giorno più vecchio come il corpo, come l'autoritratto maniacalmente dipinto. Zavattini risponde con la modernità di una parabola che in Italia può essere paragonata a quella di Pasolini per cui i termini scrittore, poeta, regista e maître à penser sono, ciascuno preso per sé, definizioni parziali.

Nel cinema, per la sua natura gioiosamente dissipatoria, Zavattini collaborò un po' con tutti anche varcando i confini nazionali, ma il suo nome resta legato a quello di De Sica da un rapporto problematico, da un binomio artistico turbolento, da un sodalizio ingannevole quanto duraturo perché cementato dalla guerra, nei lunghi mesi della generosa ospitalità offerta da De Sica a Zavattini e alla sua famiglia. Così non è solo un rigurgito di umorismo, diventa una chiave di lettura la risposta resa nell'agosto del 1984 dall'anziano scrittore alla "Domenica del Corriere" che gli domandava cosa avesse amato di De Sica: "Di lui mi piaceva che gli piacevo molto io". La collaborazione con De Sica ha storicamente avuto il principale difetto di offuscare la produzione - originalissima sul versante teorico - dello Zavattini sperimentale che a partire dai primi anni Cinquanta investì il proprio capitale artistico e produttivo, incrementato dalla fama cinematografica ottenuta, sul superamento degli spazi conoscitivi aperti dal neorealismo. Gli incontri con Visconti (Bellissima, 1951 e l'episodio Anna Magnani di Siamo donne, 1953) e con Fellini (episodio Agenzia matrimoniale di Amore in città, 1953) si risolsero in occasioni mancate anzitutto per il diaframma interposto fra il soggetto zavattiniano e la sceneggiatura affidata ad altri.

Eppure la fraternità antropologico-geografica che lo accomuna a Fellini sul piano dell'opera grafico-pittorica, della mitopoiesi fantastica e perfino nel racconto-confessione della crisi di un uomo di cinema (il monologo zavattiniano Come nasce un soggetto cinematografico è del 1958, 8 e 1/2 del 1963) parla da sola e trova presumibili radici nell'humus culturale emiliano-romagnolo e nella formazione giovanile - finalmente indagata - maturata all'interno della palestra-vivaio dei "numeri unici" umoristici. Quanto a Pasolini, come Zavattini propose nella seconda metà degli anni Sessanta una nuova idea di teatro del logos, difese solitariamente l'approdo dello scrittore luzzarese alla poesia dialettale e ne condivise sempre l'impegno a favore della diffusione di una cultura democratica (un esempio per tutti, partecipò al gruppo di lavoro costituito dagli Autori Cinematografici per la diffusione dei cinegiornali liberi ideati da Zavattini).

é in un certo senso inevitabile affrontare la sua carriera artistica per segmenti di produzione, seguendo la suddivisione canonica per discipline, ma questa via lascia insoddisfatti dal momento che l'attività giornalistica non si può che rapportare a quella letteraria, e quella letteraria a quella cinematografica perché operò sempre, con convinta disinvoltura, un gioco osmotico di travasi intertestuali. Di conseguenza non è possibile studiare il rapporto di Zavattini con il teatro - da spettatore, da autore e da teorico - senza tenere conto dell'opera letteraria e soprattutto dell'attività di sceneggiatore che per oltre un trentennio continuativamente segnò, con la messe di soggetti partoriti e nel rapporto preferenziale con alcuni registi, il cinema italiano. Il suo apporto reso a tutte le forme dello spettacolo novecentesco (teatro, cinema, radio e perfino televisione, dal momento che certe sue battaglie sulla necessità di creare una "diaristica italiana" hanno trovato tardivo compimento nella tv delle piazze) è ingentissimo. Senza considerarlo non si può affrontare il suo ultimo contributo, un testamento cinematografico che lo vede esordire in una produzione televisiva come regista e come attore a ottant'anni.

Nel fare i conti con l'opera testamentaria, mentre si sdipana sotto i nostri occhi un filo di immagini che a ritroso si lega con la professione di fede antiletteraria e con la confessione autobiografica, si scopre la necessità di ricomporre i frammenti di una poetica teatrale, finora mai analizzata, legata ai problemi drammaturgici posti dalla rappresentazione della mente e delle sue proiezioni. La scena zavattiniana è una enorme testa pensante, diventata nel tempo tanto grande da lasciare in eredità ai posteri un esplicito invito ad affrettare i tempi della miracolosa - e perciò ineludibile - venuta di ciò che Zavattini ne La veritàaaa chiama il "pensiero di tutti".

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